Non ha ancora una collocazione precisa ma ormai nelle preoccupazioni del management viaggia sotto traccia: voglio coniare per questo fenomeno l’espressione di “marketing dell’attenzione all’offesa”. Sul piano teorico, il discorso è piuttosto semplice. La vita pubblica e quella privata sono piene di situazioni in cui le persone si sentono offese dalla condotta o dalle parole di qualcun altro: a volte si tratta di singoli individui, altre l’offesa tocca un gruppo. Per la buona salute di un’azienda non urtare le sensibilità è fondamentale, che si tratti di quelle della clientela, del pubblico generalista o dei suoi stessi dipendenti e collaboratori. In questo articolo (cui ne seguiranno altri sul tema) mi occuperò specificamente del caso in cui a offendersi sono categorie di persone all’interno del pubblico generalista, che segue le comunicazioni dell’agenzia.
Tutti sanno che certe forme di disinibizione dei messaggi pubblicitari, che magari qualche anno fa strappavano anche dei sorrisi, ora rischiano di offendere e sollevare delle tempeste mediatiche: chi è affezionato alle vecchie modalità espressive parla di “dittatura del politicamente corretto”. Questa forma di controllo del linguaggio assume sovente delle forme eccessive, e qualche volta francamente grottesche. Ma le sue istanze ed intenzioni sono da prendere in considerazione seriamente, e mirano a riequilibrare rapporti di forza a favore di categorie storicamente discriminate, oltre che a educare a un uso del linguaggio più rispettoso dentro lo spazio pubblico. Le critiche puntano molto in direzione della libertà espressiva, che in questo modo sarebbe gravemente violata. Ma in ogni caso non avrebbe senso applicare a un’azienda gli stessi principi riconosciuti per un artista. Se pure accantoniamo il valore etico di una maggiore attenzione all’inclusione anche nel linguaggio, rimane il fatto che qualunque imprenditore, manager, o pure il semplice esercente di un’attività commerciale, ha interesse a ingraziarsi il cliente. Nessuno gli vieta di esprimere opinioni, anche le più abiette, e però non dovrà poi rammaricarsi se quelli che se ne sentono feriti promuoveranno il boicottaggio dell’azienda, in tal modo esprimendo a loro volta un’opinione.
Gli ultimi anni offrono un florilegio di scivoloni da parte di aziende che si presumerebbero più accorte nella comunicazione. Epica, ad esempio, la pubblicità di H & M, che rappresentava un ragazzino di colore con una maglia su cui era effigiata la scritta “Coolest monkey in the jungle”, ricalcando involontariamente (ma a questi livelli di ingenuità, l’assenza di dolo è una debole giustificazione) uno dei peggiori stereotipi razziali. Sempre a proposito di stereotipi, meno eclatante, ma non meno grossolana, fu la performance della Fiat che, per la festa della donna, offriva in regalo a tutte le guidatrici dei sensori per il parcheggio…Dolce e Gabbana, quasi dei campionissimi nel ramo, fecero imbufalire le comunità asiatiche con un raro accumulo di stereotipi (certo non aiutò la gestione della crisi il fatto che, per errore, vennero fuori comunicazioni interne in cui si lamentavano “che i cinesi sono una merda”). Non pensate però che tutto ruoti per forza intorno al politicamente corretto. Come dimenticare, subito dopo le terribili scosse sismiche in Emilia Romagna, l’hashtag sui social di Groupalia che diceva pressappoco “via dal terremoto tutti a Santo Domingo?”.
Non è che lo scherzo o l’ironia siano vietati, ma bisogna saperli fare. Ne ha dato una dimostrazione magistrale Checco Zalone in uno spot volto a raccogliere fondi per l’atrofia muscolare spinale. All’inverso, un’azienda può scegliere un messaggio forte e contrappositivo, se ha la forza per condurlo sino in fondo e una formula per esprimerlo che non rafforzi l’offesa. Storica fu l’intervista in cui Piero Barilla dichiarò che non avrebbe mai incluso, nell’immaginario simbolico e pubblicitario della sua azienda, una famiglia omossessuale ma soprattutto aggiunse che lui non aveva niente contro i gay, perché “tutti sono liberi di fare quel che vogliono purché non infastidiscano”.
Quando sopraggiunge un incidente di questo tipo i brand cercano di mettere una pezza (capita anche che sia peggio del buco) oppure si profondono in scuse (il premio per le meno contrite mai viste spetta di nuovo a Dolce e Gabbana, dentro una surreale intervista in cui farfugliavano pure qualcosa come noi ci teniamo a voi cinesi, siete tanti!). O accade che la reazione sia più strutturata: oggi Barilla è all’avanguardia tra le imprese orientata alla diversity. Pentimento? Allargamento di vedute? Ipocrisia? Importa fino a un certo punto, perché gli effetti sono sostanziali. La Nike si macchiò di colpe orrende (nella migliore delle ipotesi di omessa vigilanza) riguardo lo sfruttamento del lavoro minorile, però poi se ne uscì con il primo bilancio sociale – quello che va oltre la logica interna dei profitti e mette in conto i costi e le utilità collettive – che tuttora rappresenta un modello per le imprese socialmente responsabili.
Quel che tuttavia ancora stupisce, sul tema generale dell’offesa, è che gran parte del management rubrichi le attività solo nel campo della gestione della crisi. Ognuno cioè si muove nella sua area, e se poi capita la disgrazia si cerca di tamponarla in qualche modo: succede che alcune gaffe maturino nella comunicazione social, perché chi se ne occupa ha solo il vincolo di aderire alle strategie di pianificazione editoriale ma non una spiccata competenza nell’ambito delle sensibilità culturali (è capitato di recente a La Molisana). Negli Stati Uniti le maggiori case editrici si sono dotate di una figura chiamata sensitivity reader, ovvero un lettore professionale in grado di captare e cassare (quasi un radar più che un reader) le sfumature che rischiano di versare benzina sopra materiali infiammabili. Non è detto che sia una buona cosa per la letteratura che, se ha obiettivi chiari e/o esigenze realistiche, non può ficcare la testa sotto la cappa mortifera della repressione linguistica. Ma, come ho detto, per l’azienda è una questione diversa. Un sensitivity reader, che in Italia potrebbe chiamarsi Responsabile per le sensibilità e dovrebbe corrispondere alla figura di un tecnico culturale in grado di districarsi però con le esigenze del marketing, sarebbe un enorme valore aggiunto dell’azienda. Non solo perché prevenire è meglio che reprimere (degli incidenti rimane memoria a lungo nel business), ma perché la sua presenza renderebbe naturale una focalizzazione costruttiva dell’azienda sui temi del rispetto, dell’inclusione, della comunicazione gentile. Insomma non una mera linea difensiva, e neppure una linea di prodotto, ma un produttivo sviluppo della sua identità culturale.
Remo Bassetti ha pubblicato nel 2021 per Bollati Boringhieri il libro “Offendersi”. Con Anima in Corporation si propone di affiancare le aziende nel marketing dell’attenzione all’offesa e/o nei servizi di editing aziendale.