Guida per le aziende food






Primo assaggio, pagina 1

Introduzione





Primo assaggio, pagina 2


Questa piccola guida, inviata a puntate alle aziende del settore alimentare, individua otto parole chiave per orientare la comunicazione dentro il mercato del food. La presenza di alcune era inevitabile, per altre si è cercato di andare oltre l’evidenza. Ma anche in quelle che possono apparire scontate, come “materie prime”, che inaugurerà il ciclo con il prossimo invio, proverò a scavare significati sotto la superficie. La comunicazione di cui si parla riguarda soprattutto il modo di porsi del prodotto e del servizio. Va da sé che esiste poi un altro livello essenziale, che ad Anima in Corporation preme almeno altrettanto e del quale vengono fatti solo cenni sommari: quello della comunicazione più propriamente aziendale, che concerne la promozione svolta prima e dopo la fase dell’acquisto in tavola, in negozio o nel supermercato, dunque il web, la pubblicità e altre forme, anche non convenzionali, below the line e above the line (per usare una definizione forse superata dalla storia).


La guida si rivolge congiuntamente a produttori, somministratori e distributori perché tutti sono sulla stessa barca, e il successo dell’uno si giova normalmente del successo dell’altro.


Questo appetizer comunicativo nasce dalla convinzione che l’esplosione del mercato del food si abbini a una nuova complessità culturale nell’affrontarlo. Chi saprà gestirla con maggiore competenza comunicativa uscirà vincitore dentro la dilagante concorrenza.


L’incremento del comparto alimentare, decisamente in controtendenza rispetto alla critica congiuntura economica, nasce in effetti da una svolta: il cibo è divenuto un fenomeno culturale. Ed è per questo, non perché la gente sia più famelica, che il consumo vola verso l’alto.

Che il cibo sia un fenomeno culturale vuol dire essenzialmente due cose. La prima è che dietro ogni prodotto esiste un discorso che lo trascende, una riflessione che vira sulla salute, sulla sostenibilità, sul saper fare e l’artigianalità, sulla tutela della tradizione, sul legame con il territorio e così via. Il cibo che si presenta nudo alla mensa, pretendendo di fare breccia solo attraverso il sapore, non ha nessuna chance di emergere.




Primo assaggio, pagina 3


La seconda è che i discorsi sul cibo hanno preso il posto di precedenti discorsi culturali: le persone che prima parlavano di politica, di letteratura o di religione, adesso parlano di cibo, ed è sufficiente compulsare per qualche giorno le pagine dei media per rendersi conto di questo sorprendente spostamento d’asse. Mai come oggi pare realizzato l’aforisma del filosofo Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia.




Una freschissima celebrazione di questa promozione culturale del cibo è l’istituzione di un corso di laurea in “Scienze, cultura e politiche dell’alimentazione” e della relativa magistrale di “Scienze economiche e sociali della gastronomia”, con programmi formativi molto ambiziosi comprendenti sociologia, diritto, agronomia, storia, antropologia, filosofia estetica e ogni area dello scibile.


Se la parola food (in uno con l’abbinamento beverage) sta soppiantando alimentare, non è (o almeno non solo) per vezzo anglistico: il food segna proprio il passaggio a questa nuova dimensione culturale del cibo e introduce a un mondo nuovo, sempre più a contatto con il settore dello spettacolo e dell’intrattenimento, intorno al quale ruotano – dallo chef ai foodies – figure investite di una nuova aura di nobiltà mediatica. Un mondo con i suoi specifici riti, i suoi codici, i suoi linguaggi dei quali in questa guida viene tracciato, attraverso il filtro delle otto parole chiave, un abbozzo interpretativo secondo una direzione assolutamente pratica.




Primo assaggio, pagina 4




Prima puntata, pagina 5

Materie prime

La materia prima del tuo racconto aziendale sono le tue materie prime



Prima puntata, pagina 6


L’industria del cibo si è identificata a lungo essenzialmente quale processo di abilità nella trasformazione. Solo in rari casi si riteneva proficuo inserire informazioni dettagliate sulla materia prima. Che improvvisamente, per dire, tutto il pistacchio per essere buono dovesse proclamarsi “di Bronte” era un’ipotesi che non sfiorava nessuno.

Uno dei segni più tangibili del passaggio dall’industria alimentare a quella del food è invece la centralità della materia prima: non solo i produttori sono tenuti a prestarvi attenzione (si spera che silenziosamente lo facessero anche prima) ma soprattutto corre l’obbligo al marketing e alla comunicazione di sottolineare l’assoluta qualità e freschezza degli ingredienti di un prodotto (simbolo massimo ne è il “fresco più fresco” di Bottura). Oltre a ciò, lo stesso mercato degli ingredienti ha notevolmente ampliato il suo bacino diretto di consumatori, non costituendo più una questione prevalentemente di B2B.

 

Lo sbocco più sorprendente della materia prima-superstar è lo street food, il cui percorso è assimilabile, in un paragone con l’abbigliamento, al jeans “firmato”. Un cibo considerato adatto ai palati rustici dei camionisti o degli adolescenti si sta guadagnando uno spazio sempre più eclatante, dopo aver ricevuto una spinta decisiva dal movimento Slow Food e dall’insistenza sul ritorno alla terra e alle origini del cibo. Attualmente è quasi impossibile prescindere da un qualche richiamo al “come una volta”.


Lo street food si giova altresì di quelle altre naturali ramificazioni delle materie prime che sono la tipicizzazione e la specializzazione. In nome dell’unicità che l’esperienza di un pasto deve acquisire (si veda la parola chiave esperienza), il cibo “tipico” di una certa area geografica acquista un’aura tutta particolare.

Questo ha scatenato una corsa alla “tipicità” (in Italia ci sono 283 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario) che però portata agli estremi non è necessariamente una garanzia di redditività: non va trascurato che la metà del fatturato de mercato tipico lo assommano il grana padano, il parmigiano reggiano e il prosciutto di Parma. In questa prospettiva la rilevanza del singolo prodotto, in quanto tipico, sembra destinata a coincidere con una particolare dote comunicativa del prodotto, che riesca a trarre dalla sua peculiarità storico-geografica un senso capace di rinforzare la sua espressione gustativa.



Prima puntata, pagina 7

I riflettori sulle “materie prime”, considerate come garanzia di salute dell’alimentazione, coincidono frequentemente con il “biologico”. Se oggi è facile dire che biologico è bello, rimane tuttavia ancora da migliorare la sua definizione, dato che persino le fonti istituzionali appaiono assai vaghe. Nel frattempo sarebbe consigliabile per le singole aziende di esplicitare una formulazione del proprio “biologico”, traendone un vantaggio competitivo se questa risulta parzialmente differenziata sul mercato.

Una freschissima celebrazione di questa promozione culturale del cibo è l’istituzione di un corso di laurea in “Scienze, cultura e politiche dell’alimentazione” e della relativa magistrale di “Scienze economiche e sociali della gastronomia”, con programmi formativi molto ambiziosi comprendenti sociologia, diritto, agronomia, storia, antropologia, filosofia estetica e ogni area dello scibile.


L’attenzione sulle materie prime potrebbe apparire non necessariamente un vantaggio per l’export dell’industria italiana che ha trovato slancio nella trasformazione.


Così, alcune industrie, come quella del caffè o quella del cioccolato (tradizionali eccellenza italiane) hanno dovuto spostare l’accento sui fattori di produzione.

“Il packaging Kellog’s, chiassoso, appariscente, quasi clownesco è diventato improvvisamente fuori moda, a fronte di una sobria scatola di cartone marrone che mette in risalto autenticità e provenienza” (Wally Olins)

Questo dimostra che non è affatto necessario che le materie prime appartengano al produttore, e nemmeno che siano a lui accostabili geograficamente: quel che conta è che il produttore prenda una posizione su di essa, che potrà consistere nel controllo dell’intera filiera, nella selezione o nella valorizzazione. Insomma che sia, ideologicamente, il dominus delle materie prime. In questo contesto, si potrebbe dire che vi necessita un duplice e parallelo processo di trasformazione delle materia prime in prodotti: uno tecnico-alimentare e uno comunicativo.

Il ruolo svolto dalle materie prime spinge verso una loro espansione: prodotti finiti, come il pane o ancor più l’olio, tendono a proporsi a loro volta come “materie prime” essenziali di prodotti di secondo livello, mentre nuove materie prime un tempo considerate piuttosto marginali (ad esempio diversi tipi di semi) fungono da rinforzo del prodotto, anche qui comunicativo non meno che organolettico, per marcarlo in modo più originale.



Prima puntata, pagina 8




Terza puntata, pagina 9

Prezzo

Giustifica il tuo prezzo senza dire che stai giustificando il prezzo



Terza puntata, pagina 10


I prodotti alimentari, come ogni altro bene, hanno l’onere di giustificare il proprio prezzo. E però il prezzo, al tempo stesso, deve parlare da solo. Dedicare troppo spazio alla ragione per cui un cibo di qualità costa più di altri significa focalizzare l’attenzione prima sul prezzo caro che sulla qualità. Spiegare dettagliatamente perché costa di meno, paradossalmente, può far sorgere un atteggiamento critico e suggerire che non costi abbastanza meno… e d’altronde non spiegarlo affatto e proporre un prezzo di plateale convenienza fa sorgere dubbi sulla qualità.


Il prezzo alto ha trovato le sue giustificazioni-tipo. La più significativa è lo status di “gourmet”: di nuovo sarebbe scorretto estrarre dalla parola un dato oggettivo. Il gourmet esprime soprattutto un’intenzione e un bilanciamento del rilievo assunto dalle materie prime. Nel gourmet il produttore torna a sottolineare il suo ruolo di trasformatore. Che una cosa costi di più perché è gourmet diventa assiomatico, come il costo più elevato di un veicolo di cilindrata superiore. Poi, anche il gourmet è suscettibile di differenziazione, specialmente per abbinamento, come mostra la recente proposta del “fashion gourmet”.


Quanto al prezzo basso, per comprendere come esso attivi una coscienza contrastata (voglio risparmiare/voglio un buon prodotto) è illuminante la ricerca di una qualificata rivista inglese di nutrizionismo che ha svolto un test su un campione di persone facendole mangiare nella stessa quantità ma dividendo i due gruppi all’interno di due situazioni diverse, una guidata dalla scelta sulla carta dei cibi e una dalla formula “all you can eat”.


Ebbene, i soggetti compresi nella seconda fascia hanno avvertito un senso fastidioso di sazietà, convinti di essersi abboffati fuori misura e in modo insano, somatizzando in definitiva il senso di colpa per avere scelto solo in funzione della quantità.

Soddisfacenti giustificazione del prezzo basso sono quelle che fanno leva su un elemento quasi incidentale, che viene concettualmente separato dal legame con il cibo, oppure quella che mette in secondo piano l’elemento del risparmio.




Seconda puntata, pagina 11


Nella prima categoria rientrano i punti di fedeltà dei supermercati che riducono la questione del prezzo a una relazione personale o le “offerte” che sembrano dettate da una contingente circostanza di magazzino o da un aggressivo approccio commerciale, tanto più efficace quanto più l’offerta è inquadrata in una fascia temporale (e quindi vuol significare di essere indipendente dalla qualità del cibo, che in momenti ordinari torna a costare il suo “giusto” prezzo).


Nella seconda categoria rientra il menu “degustazione” dei ristoranti, che non otterrebbe lo stesso consenso se venisse denominato “sconto”, a dimostrazione del fatto che anche questa parola allettante richiede per essere apprezzata i suoi giusti contesti.

Il menu degustazione è nulla più che uno sconto, ma si presenta come un mix tra la vanità del ristoratore, che è disposto a rimetterci pur di condividere con il cliente una maggior quota di scelte dalla cucina, e la sua obiettiva convenienza per il ristorante, specialmente quando per l’applicazione del prezzo ridotto si richiede l’adesione di tutti i commensali, facilitando così il lavoro della cucina.

Si peccherebbe di semplicismo, tuttavia, ricavando da quest’ultimo esempio che una situazione ambientale favorevole dell’imprenditore determini una riduzione del prezzo.


Nel caso del green, che implica certo una filiera cortissima, il prezzo alto è controintuitivo e non è tanto il prezzo che il produttore “deve” praticare ma quello che il consumatore “deve” accettare per accedere a una dimensione che considera maggiormente improntata al benessere.

Nemmeno il sale è tutto uguale. Oltre al comune da cucina esiste una vasta gamma di qualità, che va dal sale rosa dell’Himalaya a quello celtico o al fiore di sale della Sardegna: la materia prima è in gran parte la stessa, ma il prezzo cambia abissalmente, e anche triplica, grazie alla differenziazione”

Il prezzo praticato dalla concorrenza è uno dei fattori più deboli fra quelli che dovrebbero orientare l’azienda a formulare il suo: se è vero che obiettivo primario di un’impresa è la differenziazione, il prodotto “differenziato” o i prodotti dell’azienda differenziata discendono essenzialmente un confronto tra l’azienda e i suoi potenziali pubblici. Secondo i postulati della nota dottrina di marketing nota come “oceano blu” la concorrenza non va battuta ma evitata, grazie alla differenziazione.




Seconda puntata, pagina 12

 



Terza puntata, pagina 13

Multisensorialità

Cibo: il palato non è il palazzo



Terza puntata, pagina 14


Il ruolo assai limitato che il cervello riserva al palato ha sempre reso normale la consumazione del cibo attraverso gli altri sensi. Le percezioni veicolate dai sensi, tuttavia, sono figlie della loro epoca storica e non poche cose che i nostri nonni avrebbero trovato profondamente stimolanti per l’appetito, ad esempio ciò che ruota intorno alla cacciagione, suonerebbero oggi tombali per qualsiasi stomaco.

I cambiamenti dell’estetica gastronomica sono piuttosto repentini e di stretta matrice culturale. Oggi possiamo dire che: 1) Al posto dello spettacolo dell’abbondanza è subentrato lo spettacolo della salute. Il banchetto pantagruelico ha ceduto a un equilibrio misurato con almeno un richiamo vegetale e un bilanciamento cromatizzato; 2) al posto della stratificazione è subentrato lo snellimento. Questa forma di “purificazione” può essere propria del cibo esposto o realizzata da ciò che lo contorna: il cestino di vimini per il pane o la tavola non apparecchiata. Il multistrato piramidale è assai presente nella cucina dei grandi chef ma funziona se è richiamato un ordine rigoroso che espunge il superfluo, magari con una goccia laterale (ad esempio l’aceto balsamico) che “marca” la figura solida; 3) al posto della manipolazione si è imposto il nude look. Come nella cosmesi impera il trucco che fa apparire struccati così nel cibo non è raro che il risultato finale consista nel restituirla allo stato antecedente: a prima della cottura o addirittura al suo aspetto nell’ecosistema di partenza (e così alcune verdure vengono immesse in acqua e ghiaccio per riprendere il colore brillante della crudità).

Gli esperimenti scientifici offrono riscontri sorprendenti sull’incidenza che gli altri sensi hanno sul gusto. Memorabile un test statunitense sull’assaggio di Pringles, tutte uguali e tuttavia soggette a un apprezzamento diverso dei degustatori a seconda di quanto vicino fosse posizionato un microfono che amplificava con una cuffia collocata nelle orecchie l’effetto sonoro della masticazione: a microfoni più vicini corrispondeva la percezione rumorosa di patate più croccanti, e quindi più fresche, mentre l’acustica ridotta restituiva il senso di uno snack più stantio. D’altronde il gruppo multinazionale Crown, che ha nelle lattine il suo core business, ha finanziato una sperimentazione per verificare quanto il suono della linguetta influenzi la sensazione che la bibita sia frizzante.

E per cogliere più intensamente il sapore del bacon, parrebbe, giova ascoltare durante il pasto il suo sfrigolio sulla piastra. In un importante ristorante di pesce inglese il piatto della casa viene servito addirittura con un Ipod che riproduce lo schiantarsi delle onde e i versi dai gabbiani.



Terza puntata, pagina 15


Spostando l’attenzione al tatto, non meno singolare la constatazione che il successo di alcune salse piccanti, come il wasabi, passi per una stimolazione dolorosa del nervo trigemino: giusto però quel po’ di dolore che, grazie al rilascio delle endorfine, acuisce l’esperienza alimentare, facendola dunque partire dalla pura sensazione tattile.


L’elaborazione del packaging, in chiave non solo estetica ma pure sensoriale sui poli densità/sottrazione, e gli studi sul colore (inizialmente circoscritti ai coloranti, che in quanto rinforzo visivo sono una sorta di atipica materia prima dei cibi industriali) costituiscono ad oggi lo stadio più avanzato delle ricerche sulla multisensorialità nel campo del food.



Nell’insieme, tuttavia, molte aziende oscillano tra gli opposti estremi di uno scientismo pretenzioso (l’ultima frontiera è il neuromarketing, certamente utile ma non così radicalmente predittivo come si vorrebbe) e una certa superficialità nel pensare il cibo in un contesto sensoriale più esteso. Rarissimi sono gli spunti di riflessione sul rovescio della medaglia, cioè su quanto gli altri sensi possano distrarre dal gusto o deviarlo, e quindi ragionare sulla loro parziale sterilizzazione.

Ferran Adrià torna con un ristorante multisensoriale a Ibiza: una “gastrofiesta”. Ma per pensare a esperienze multisensoriali che abbiamo fatto tutti: quanti ovetti kinder si sarebbero venduti senza il suono della sorpresa e il corpo a corpo dello scarto?

Certamente sarebbe opportuno che ogni produttore di cibo tracciasse per sé una scheda “fisica” del prodotto, attribuendogli una porzione di identità per ciascun senso ma anche immaginando i contesti ambientali (o soppesandoli, se nel caso di un ristoratore o un somministratore) in cui si svolge o si svolgerà l’incontro del cibo con il consumatore e calibrando gli effetti sensoriali in funzione di quelli.




Terza puntata, pagina 16



Quarta puntata, pagina 17

Relazione

I mercati sono conversazioni



Quarta puntata, pagina 18


In coincidenza con l’avvento del digitale, la necessità della “relazione” tra un’impresa e i consumatori è diventata uno dei pilastri del marketing. Può sembrare una contraddizione, se pensiamo a quel che sino a pochi anni fa si intendeva come relazione, ma è un fatto che grazie al web qualunque azienda è ora facilmente raggiungibile e una sua condotta silente, a fronte delle sollecitazioni dei consumatori, viene giudicata tanto negativamente da intaccare pericolosamente la sua reputazione. Sarebbe un errore, tuttavia, confinare nella sfera del contatto virtuale l’elemento della reputazione. L’attitudine a gestire le relazioni, anche e soprattutto in un’impresa di dimensioni medio-grandi, sta nella capacità di passare rapidamente dall’online all’offline, e viceversa.


Anche l’assunto che ogni comunicazione d’impresa debba prendere spunto dai bisogni dei consumatori è figlio dell’importanza della relazione, e non si traduce solo in una generica sensibilità per le richieste del pubblico ma anche nella disponibilità a offrire risposte singole ai reclami o alle domande dei clienti oltre che in un loro coinvolgimento, in certi casi persino progettuale.

La spinta verso la relazione ha impresso all’industria del food un grado più marcato di personalizzazione dell’azienda che si giova dell’esposizione pubblica di un capostipite, di un inventore, di un artigiano dalle tradizioni familiari, di uno chef.



Le imprese meno mature, sotto questo profilo, si limitano invece a collezionare ed esporre segni di gradimento da parte del loro pubblico, spesso sui social media. E’ vero, comunque, che il testimonial popolare sta progressivamente scalzando il personaggio famoso nella strategia promozionale.


La spinta verso la relazione ha impresso all’industria del food un grado più marcato di personalizzazione dell’azienda che si giova dell’esposizione pubblica di un capostipite, di un inventore, di un artigiano dalle tradizioni familiari, di uno chef.

Rispetto ad altri ambiti imprenditoriali, il lavoro di squadra in un’azienda food viene posto in secondo piano. Non è raro che questa mediatizzazione del leader induca le aziende a trascurare la formazione comunicativa delle figure intermedie o del personale di rango più basso, che pure sono essenziali nella trasmissione del valore e che invece sono educati secondo criteri di standardizzazione che disturbano l’elemento relazionale. Il successo di piccole realtà, nel food, risponde proprio al contatto più immediatamente diretto con il leader.




Quarta puntata, pagina 19


Un’eccezione alla personalizzazione si verifica in quei settori in cui il fattore territoriale è dominante, come nel caso dei vini. Nonostante sia frequente il caso in cui il nome del produttore sia quello di una famiglia o della persona fisica, la sua esposizione quale persona di cui fidarsi è ridotta a confronto di altri settori alimentari, salvo alcuni casi di visita alle cantine.


Per quanto riguarda il cliente, si deve partire dall’assunto che ne  esistono tipologie nettamente differenti. Il Food Travel Monitor ne classifica ben tredici, dall’autentico all’eclettico, dall’esteta al vegetariano, e l’azienda deve decidere nettamente se ha in testa di intercettarne diversi campioni oppure concentrarsi solo su alcuni. E’ il caso di sottolineare come questa strategia di posizionamento si differenzi molto dalla classica operazione di targetizzazione: le categorie indicate sono infatti molto fluide e spesso socialmente miscelate, non insomma cristallizzabili nei classici parametri di classe, età, occupazione, area geografica.


Come è stato efficacemente scritto, non si tratta di categorizzare gli individui ma di modellizzare i comportamenti in contesti specifici.

La grande novità dei social è che a influenzare la reputazione dei prodotti e dei servizi gli amici e i conoscenti possono essere assai più influenti di un divo che fa il testimonial. Anche se si tratta di scegliere il caffè.

La relazione, tanto più importante in un mercato meno propenso alla fidelizzazione, è anche un’opzione economicamente oculata, se si considera che coltivare i clienti fidelizzati costa circa cinque volte meno che conquistarne di nuovi e che la percentuale di possibilità di vendere a un cliente già fidelizzato è di circa quattro volte superiore a quella di vendere a un cliente nuovo. La customer loyalty è guidata da regole completamente diverse da quelle proprie dell’acquisizione e fortemente variabile nei contesti internazionali. Peculiare dell’Italia è il piacere del favoritismo, lo strappo alle regole a vantaggio del cliente particolare, non necessariamente altrettanto apprezzato, ad esempio, in alcune culture asiatiche.




Quarta puntata, pagina 20



Quinta puntata, pagina 21

Esperienza 


Il nostro Io è l’esperienza dell’Io, anche quando mangiamo



Quinta puntata, pagina 22


La parola chiave più importante del marketing attuale è, inevitabilmente, la più inflazionata: si tratta dell’esperienza. Concettualmente è un notevole progresso di consapevolezza: l’esistenza non è un accumulo di beni e relazioni ma più precisamente un accumulo di esperienze inerenti ai beni e alle relazioni.


In alcune teorizzazioni, l’esperienza viene fatta coincidere con ciò che è straordinario, consista esso nell’opulenza sensoriale di Eataly o nella babele storico-ludica della fabbrica Guinness. In realtà, come si diceva, l’esperienza può essere significativa anche se priva di effetti speciali, e in alcuni casi una certa moderazione scenica giova all’intima emozione che si conserva nella memoria di chi ha vissuto l’esperienza. Ricondotta all’essenziale, l’esperienza dovrebbe essere “unica” e cioè non confondibile con altre vissute.


E’  intuibile come una buona qualità possa essere insufficiente allo scopo. Al contrario è la sensazione di star provando un’esperienza “unica” a incidere, anche in termini sinaptici, sulla percezione della qualità, disponendo il fruitore a un apprezzamento sensoriale che incrementa la qualità nel suo cervello. Per questo il modo di presentare le cose è fondamentale: un cibo che è magro al 75% sarà vissuto come esperienza diversa rispetto a un cibo che ha solo il 25% dei grassi, benché sia la stessa cosa. Non bisogna tuttavia esercitarsi come imbonitori, atteggiamento perdente sul lungo periodo, anche perché destinato a suscitare aspettative alte di esperienza che alla fine non si riescono a mantenere.

Ovviamente, “presentare” le cose, nel food, significa anche dotarle di una forma e di un corredo: il packaging è ormai un elemento fortemente condizionante dell’esperienza. Il quadro storico muta continuamente, e insieme ad esso le percezioni: un locale che somministra alcuni cibi in un barattolo in questo momento coglie perfettamente quel nostalgico ricordo della conserva di casa che nettamente prevale sulla lunga “militanza” industriale del barattolo, che contrasterebbe con l’idea della genuinità. Anche la plastica, nonostante la sua disgraziata fama anti-ecologica, ha il pregio di richiamare la conservazione domestica del cibo.




Quinta puntata, pagina 23


Uno dei più autorevoli analisti del futuro, l’ex direttore di Wired Kevin Kelly, ha scritto che nei prossimi trent’anni “smetteremo di produrre oggetti solidi e a trasformarli in verbi astratti. I prodotti diventeranno servizi e processi”. Vi è attualmente predilezione per esperienze che determinino un coinvolgimento multisensoriale e non implichino attese, differimenti, scomposizioni: tutti fattori favorevoli per l’industria del cibo, o almeno in certe sue espressioni.


Il fatto che Esselunga abbia conti migliori di Auchan dipende anche dalla sua intuizione di modificare il vecchio concetto del supermercato come magazzino di scorteper riempire la dispensa in uno spazio confortevole, centrale, più interessato alla produzione del territorio: tutte prerogative che attribuiscono una forma significativamente diversa all’esperienza della spesa in un grande magazzino.


Una quota di spesa si è trasferita da beni durevoli a beni di consumo, fra i quali rientra ovviamente il cibo: un buon modo per consolare i clienti della “fuggevolezza” del bene è rendere l’esperienza parzialmente ripetibile persino con la sola iniziativa del consumatore.

Baladin, capostipite delle birre artigianali in Italia, ha modificato l’esperienza della bevanda in Italia, avvicinandola alle modalità di degustazione del vino. L’imprenditore piemontese mostra nei locali, nel luogo di produzione e nella celebrazione degli anniversari una particolare attenzione al costante arricchimento espressivo dell’esperienza food & beverage.

Ecco spiegato il successo dei corsi di cucina o di degustazione e lo svelamento delle ricette. La didattica-spettacolo che accompagna frequentemente l’alta cucina è, al tempo stesso, un arricchimento dell’esperienza, un suo prolungamento e anche la chiave per un’esperienza differente. Non è da escludere che la ristorazione imbocchi un cammino in cui (come è accaduto in altri settori d’impresa) il bene primario (il pasto) costi poco e il guadagno provenga soprattutto dalla rete di servizi che lo contornano.


La summa dell’unicità esperienziale è la specializzazione. E’ in corso una vera caccia alla specializzazione, dalle hamburgerie alle jaked potatoes. Le specializzazioni, peraltro, non sono solo in funzione dei prodotti: uno dei maggiori esercizi d’ingegno nel food marketing è la capacità di individuare specializzazioni sorprendenti e non effimere.



Quinta puntata, pagina 24



Sesta puntata, pagina 25

Moralità

Rendi morale il tuo cibo



Sesta puntata, pagina 26


Il paradigma utilitaristico dell’attività aziendale è stato “contaminato”, e in questo modo certamente arricchito, dall’obbligo di agire tenendo presente implicazioni di natura etica: è nata così la responsabilità sociale d’impresa, che al di là del rispetto di una serie di normative sulla sicurezza e la trasparenza (particolarmente numerose nel settore alimentare), consiste nell’assunzione di condotte socialmente meritevoli ed è diventata, per via della sua incidenza sulla reputazione, un significativo fattore di concorrenza.


La produzione e il consumo di cibo sono storicamente legati a una dimensione morale, e non è un caso che i divieti e le prescrizioni alimentari tanto peso abbiano all’interno delle religioni.


Oggi, si discute dello spreco, dei polli in batteria, degli effetti di sostenibilità degli allevamenti, delle tracce di pesticidi, della preservazione della catena alimentare. L’industria del cibo è chiamata a reggere un difficoltoso equilibrio tra il richiamo a una maggiore attenzione e frugalità e la natura pur sempre edonistica del cibo, che anzi risulta rinforzata nel passaggio al “food”.

Pensate alle scelte di consumo orientate verso terre che hanno subito lo sfruttamento coloniale: è il caso del consumo equo e solidale. Oppure agli spazi di ristorazione e produzione nati dentro il carcere o fuori dalle mura, ma gestiti da detenuti. Ci sono società commerciali che si approvvigionano in questo modo per esprimere un elemento morale, il supporto al reinserimento.


Altro fenomeno in espansione è il trash cooking: è cominciato con una catena di distribuzione olandese che alla sera ritira le confezioni in via di scadenza dai supermercati per consegnarli a un ristorante che se ne serve come ingredienti per le pietanze. E noto come, in diversi casi, la data di scadenza prevista dalla legge non corrisponda a un contestuale ed effettivo deterioramento del prodotto. Chi mangia non solo spende meno ma contribuisce a eliminare lo spreco. La moralità arriva dunque a capovolgere i dettami essenziali del food. Al “fresco più fresco” di Bottura si contrappone lo scadente in via di scadenza.



Sesta puntata, pagina 27


La ristorazione riesce ad assorbire lo spreco in maniera accettabile, riducendolo al 5%. Peggio accade nella distribuzione, dove lo spreco raggiunge il 15%, e disastrosamente nell’industria con il picco del 40%. In realtà quest’ultimo dato coincide sorprendentemente con quello delle famiglie…ma tale forma di disattenzione domestica non diminuisce l’importanza simbolica della lotta allo spreco (anzi, questa assume un apprezzato valore pedagogico. A parte il fatto che più si sbraca in qualcosa e più si è severi nel rimuovere le proprie colpe censurandole severamente nel prossimo).


In questo momento la lotta contro lo spreco è diventato il volto alimentare della sostenibilità, che in realtà è un concetto per un verso totalizzante (la responsabilità sociale non si esaurisce nella sostenibilità) e per un altro verso parzialmente inesplorato (ci sono molti modi per promuovere la sostenibilità e i produttori o i somministratori tendono ad adagiarsi su quelli che la prassi promuove a consueti).


L’etichetta di un prodotto è la base per promuovere la moralità, anzi è un prezioso punto d’incontro fra la moralità, l’estetica, la creatività.

E’ interesse delle aziende europee denunciare lo sfruttamento del lavoro, anche minorile, che tiene in piedi la competitività di alcuni prodotti stranieri sui nostri scaffali. Ad esempio le conserve di pomodoro cinesi hanno aumentato la loro produzione del 43% in un anno. Ma i campi agricolo da cui provengono sono una specie di lager.

Attualmente troppe etichette sono a basso grado informativo e anche molto seriali in termini di creatività (o, quando creative, esprimono una pura fantasia, non coordinata strategicamente con il complesso della comunicazione).


A dimostrazione del fatto che le parole chiave si congiungono, la convivialità intorno al cibo sarebbe, secondo uno studio dell’Università di Anversa, una chiave determinante dell’etica sociale, e quindi della moralità. Non solo la condivisione del cibo nelle caverne sarebbe stato il primo motore dell’eguaglianza ma, secondo i dati della ricerca fra i ragazzi di oggi, chi è abituato a condividere i pasti è più disposto a fare volontariato e cedere il posto sull’autobus del coetaneo che ha mangiato in solitudine nell’infanzia. Una prova in più di quanto complessi siano i discorsi sul cibo e di quante accattivanti variabili dispongano le aziende per promuoverli, insieme ai loro prodotti.




Sesta puntata, pagina 28



Settima puntata, pagina 29

Convivialità

Mangiare è solo un piatto del menu



Settima puntata, pagina 30

Il paradigma utilitaristico dell’attività aziendale è stato “contaminato”, e in questo modo certamente arricchito, dall’obbligo di agire tenendo presente implicazioni di natura etica: è nata così la responsabilità sociale d’impresa, che al di là del rispetto di una serie di normative sulla sicurezza e la trasparenza (particolarmente numerose nel settore alimentare), consiste nell’assunzione di condotte socialmente meritevoli ed è diventata, per via della sua incidenza sulla reputazione, un significativo fattore di concorrenza.


La produzione e il consumo di cibo sono storicamente legati a una dimensione morale, e non è un caso che i divieti e le prescrizioni alimentari tanto peso abbiano all’interno delle religioni.


Molti hanno equivocato lo slancio iniziale di Starbucks, identificandolo nel caffè, ma quello che “accadeva” veramente da Starbucks era di essere connessi, e di nuovo parliamo di una combinazione di inclusione ed esclusione, e addirittura di compagnia e solitudine, dato che i frequentatori di Starbucks sono tutti lì a connettersi, come se partecipassero a qualcosa di collettivo (e magari quelli che sono insieme guardano il display invece che la faccia del loro commensale). Ci sono cose che sono diverse dal cibo, ma hanno senso per il fatto che si sta in un posto a mangiare o bere: ecco perché le persone che vanno nei bar dove possono accarezzare i gatti non baratterebbero quella situazione con una visita al canile.


In ultima analisi, il mangiare ha sempre qualcosa a che fare con lo stare insieme ad altri, o all’opposto e più raramente allo stare da solo: la sua parola chiave quasi immutabile è la convivialità.


L’obiettivo dei locali, dunque, dovrebbe essere di fare accadere la convivialità, e cioè ottenere che le persone stiano insieme in un modo diverso da come stanno insieme altrove, e questa scintilla può scaturire da un piccolo dettaglio, come la disposizione dei tavoli, o da un’organizzazione strutturata che regala alle persone un senso originale del loro stare insieme in quel locale.



Settima puntata, pagina 31


Un aspetto sorprendentemente sottovalutato in Italia è la parte acustica dell’esperienza gastronomica: nella costruzione della personalità di un locale di rado si ragiona con sufficiente profondità sulla sua “colonna sonora”, che pure è completamente in grado di trasformare l’autopercezione di chi lo frequenta d la sedimentazione nella memoria di quell’esperienza.

Esiste anche un “accadere” parassitario di cui beneficiano i locali, consistente nel semplice ed occasionale fatto che un posto sia di moda e ci si rechi lì perché accada il “farsi vedere” ma, sempre più, se non vengono alimentate per proprio merito, sono fiammate che si esauriscono. E si parte con un nuovo ritrovo, magari sul marciapiede di fronte.


Più recentemente la convivialità domestica, che era una tipica modalità alternativa alla ristorazione e faceva semmai confluire reddito nella distribuzione attraverso la spesa per la cena, è entrata anche’essa nell’orbita della ristorazione, grazie agli chef a domicilio o al delivery food (di contro, le catene di distribuzione più accorte si sono riorganizzate proponendo forme di ristorazione all’interno: ma è un fenomeno che sin qui ha preso più piede all’estero che in Italia).


Anche ai produttori giova promuovere modi di far accadere o stare insieme: di solito vengono suggeriti mediante la pubblicità, come nelle leggendarie campagne di Barilla, che vantano tuttoggi diversi cattivi imitatori.

Tra le forme di convivialità che stanno prendendo piede c’è quella del tavolo “sociale”. Non suscita simpatia, però, se è scoperta l’intenzione del ristoratore di voler semplicemente guadagnare coperti, comprimendo lo spazio dei commensali. E’ un’ipotesi divertente se accompagnata da un supporto creativo e differenziante. Insomma un perché del sedersi insieme.

Ma altre aziende sperimentano nuove forme di intraprendenza attraverso il packaging o la confezione, ad esempio Oneglass con le sue confezioni monodose di vino di qualità.

Tra i produttori i primi ad avere brevettato una forma di successo di “accadere” conviviale sono le cantine e le distillerie, grazie alle visite, che sono diventate un perno del turismo enogastronomico (ma anche un freno alla comunicazione creativa, cioè un risultato sul quale adagiarsi piuttosto che una base di partenza). Un esempio giustamente seguito poi dalle aziende agricole, che non dovrebbero tuttavia trascurare la necessità di governarle secondo criteri di competenze comunicativa e nel segno della differenziazione.



Settima puntata, pagina 32




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Opportunità per svantaggiati

Fai finta che avere il tuo prodotto sia lo scopo dell’umanità e aiuta chi è svantaggiato



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Come ultima parola chiave ne ho scelta una un po’ singolare, mutuata da altri ambiti dove ha anche un significato legale. Per il cibo, proviamo a intendere come “svantaggiati” quei soggetti che hanno limitazioni di accesso all’alimentazione non di natura economica. Sappiamo quanto siano cresciute le intolleranze, ed in particolare vi è stato un aumento esponenziale della celiachia. Per far fronte al desiderio delle persone che ne sono affette di consumare egualmente alcuni cibi, come la pizza o la pasta, è nato un progressivamente fiorente “mercato del senza glutine” con un giro d’affari di quasi cinque milioni di dollari. Insomma, quella che di partenza, dal punto di vista dell’impresa, è una perdita di clientela è divenuta un’opportunità, nel momento in cui si è cominciata a osservare la questione dal punto di vista di quella categoria di consumatori.

Ebbene, questa vicenda offre a mio parere un importante insegnamento all’intero mondo d’impresa, che qui analizziamo in particolare per il food. L’invito alle aziende è di immaginare che la cosa più importante al mondo consista nell’acquistare i suoi beni o servizi e poi domandarsi: Quali sarebbero, allo stato delle cose, i soggetti svantaggiati fra coloro che volessero acquistarli?”. Per spiegarmi ancora meglio prendo un esempio banalissimo: Torino è assurta ormai a meta internazionale del turismo ma incredibilmente i suoi ristoranti, nella quasi totalità, continuano a esporre all’esterno menu solo in italiano.

Ho assistito personalmente alla moltiplicazione della clientela da parte di un’umile pizzeria che si è limitata a colmare la lacuna con…questa sensazionale intuizione di marketing che è il raddoppio linguistico della carta. Ci sono molti percorsi logici per arrivare a questa conclusione, certamente più immediati: ma ad essa si perverrebbe anche se i ristoratori pensassero: “Questi poveretti degli stranieri come faranno, rispetto agli italiani, a capire cosa mangeranno? Sono svantaggiati! Mettiamogli un menu in inglese!”.


Il ragionamento (per il quale ho appena volutamente scelto un esempio paradossale) può essere ripetuto per n categorie: le famiglie con bambini, quelli che seguono una dieta, e anche coloro che sono svantaggiati per proprio demerito, come i fumatori che ambiscono a un ricovero dove spararsi in pace la loro sigaretta.




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Ovviamente ogni produttore, somministratore, distributore è chiamato ad analizzare con raffinatezza ciò che vende sul mercato e a lavorare di fantasia per individuare i soggetti “svantaggiati” e le azioni che possono compensare il loro handicap.


E’ un approccio totalmente antitetico alla targettizzazione (che ovviamente la integra e non la esclude, sorvolando qui su quelli che sono gli altri fattori che rendono parzialmente obsoleto il concetto di target): non si sollecitano i clienti “naturali” ma, al contrario, si diventa paladini di quelli che in partenza non potrebbero essere clienti.


E’ una procedura mentale che ha qualche affinità con il reframing, ovvero con quella forma di soluzione di un problema che cambia la natura stessa del problema, individuandone uno diverso da quello apparente.


L’esempio più noto è quello dell’ascensore lento: immaginate che in un fabbricato vi sia una grande quantità di condomini che si lamentano della lentezza dell’ascensore e minacciano di non rinnovare i contratti di locazione.

Beh, anche preoccuparsi di quei soggetti che sono svantaggiati perché hanno continuamente bisogno della toilette può essere un’idea…magari non la prima che consiglieremmo!

La risposta dovrà per forza essere quella di installare un costoso impianto moderno? No, potrebbe essere anche quella di mettere degli specchi a fianco agli ascensori, rendendo l’attesa meno insopportabile. Il reframing dimostra quanto sia proficuo non affidare alcun problema alla sola angolazione degli specialisti interni e, al pari della suggestione “opportunità per svantaggiati”, mostra come sia indispensabile, anche per il business, gettare lo sguardo al di là della produzione e del mercato, estendendolo ai rapporti sociali e ambientali che li condizionano.




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