Le grandi piattaforme coma Amazon, Alibaba o Apple hanno un ruolo determinante nel supportare la vendita delle aziende (ciò ha raggiunto ovviamente il picco durante le limitazioni imposte dalla pandemia). Sono anche delle gabbie, però, che tendono a comprimere o disincentivare la personalizzazione dell’identità aziendale e riducono i beni- e gli stessi brand- a commodities.
Quest’ultimo aspetto delle commodities (prodotti generici indifferenziabili agli occhi del consumatore sotto il profilo della qualità) è stato messo recentemente a fuoco, sull’Harvard Business Review, da Andrei Hagiu e Julian Wright (docenti, rispettivamente presso le università di Boston e Singapore). Più queste piattaforme attraggono nuovi venditori più la competizione si risolve in un selvaggio abbassamento dei prezzi: questo non è solo un effetto naturale della compresenza dei prodotti nello stesso spazio virtuale ma anche dell’impostazione degli algoritmi. Persino servizi tipicamente soggetti a più fattori di valutazione, come quelli alberghieri o di ristorazione, subiscono- nelle mani di Booking o Uber Eats- un processo di sbiadimento e omogeinizzazione.
Non è una scelta conscia, ma per il consumatore la piattaforma assume il ruolo della vera dispensatrice di beni e servizi, come se le aziende che lì collocano i prodotti fossero delle sottomarche o delle subappaltanti (e, fuor di metafora, alcune davvero imitano i prodotti delle aziende ospitate). Hagiu e Wright consigliano di smarcarsi il più possibile dalle grandi piattaforme, non necessariamente nel senso di abbandonarle- che per molti potrebbe essere una scelta suicida- ma quanto meno investendo nei canali proprietari, appoggiandosi a provider, come Shopify o Woocommerce. Fra le indicazioni dei due studiosi di management c’è una frase particolarmente significativa sul vampirismo delle grandi piattaforme: “cambiano regole e design in modi che indeboliscono le relazioni fra i venditori e i loro clienti”.
Il rapporto di acquisto con un’azienda non è solo il compimento di una transazione ma l’avvio di una relazione che- svolta fuori da un’infrastruttura visiva che l’azienda abbia scelto per rappresentare la propria identità e privata della qualità discorsive e retoriche che la connotano- è destinata a non progredire. Ovviamente, il problema è far arrivare i clienti sul proprio sito, ma lavorare per assicurarsi una buona posizione sulla SERP rende comunque competitivi con la piattaforma, e se non ci si limita, anche sul proprio sito, al prodotto puro e bruto si può offrire- rispetto alla piattaforma- al navigatore una “esperienza” molto più immersiva e coinvolgente. Fra l’altro, è la stessa piattaforma che può diventare la rampa di accesso al sito: alcune aziende la usano per portare a casa un cliente con un prodotto civetta che, grazie a un coupon, apre un nuovo contatto che si apre a prospettive più interessanti di un singolo scambio. L’altro problema è non “squalificarsi”, offrendo sul sito condizioni peggiori di quelle che vengono filtrate dalle piattaforme (che spesso proibiscono di vendere a prezzi inferiori ai loro). Ma anche qui le soluzioni non mancano. Molte catene alberghiere stanno battendo la strada dei benefici extra, come la scelta della camera o un prezzo fedeltà.
Bisogna insomma guardare un po’ oltre la pur legittima soddisfazione che garantisce un incremento delle vendite generato dalla piattaforma, e cominciare a fare i conti sul prezzo che si pagherà sul lungo periodo, con il crescere della dipendenza. Su una grande piattaforma non state semplicemente accettando di competere dentro il famigerato oceano rosso invece che nell’oceano blu: le piattaforme sono un Oceano Torbido, che nel medio periodo avrà ricoperto tutti i nuotatori di quel catrame inquinante, che è la sua capacità di annullare la visibilità autonomamente gestita del brand (che rischia di fare la fine di quei cormorani che ci mostrano le foto dei reportage). Dopo decenni in cui si è proclamato il superamento del marketing di prodotto da parte della brand identity, si verifica la regressione a un etero-marketing del prodotto in termini di commodity.
Dunque, il sito web- che ad alcuni cominciava a parere strumento obsoleto a fronte della presunta freschezza social- torna a essere la chiave per il ritorno al centro dell’impresa, purché sia pensato in una logica strutturale e di contenuti che arricchisca notevolmente l’obiettivo a brevissimo termine della singola transazione.
Anima in Corporation, per un sito web che porti le aziende fuori dall’Oceano Torbido