Mentre si va placando la protesta dei tassisti (sino all’inevitabile prossima puntata), vorrei considerare la questione da un punto di vista insolito, quello del marketing e della comunicazione, oltre che dell’identità culturale. Mi pare che ne possano trarre lezione per analogia molte imprese e diverse professioni. Tra l’altro, non troppo tempo fa, ebbi occasione di esporre tale prospettiva ad alcuni dirigenti di una cooperativa taxi, che si sono dichiarati consapevoli del problema ma anche impotenti a risolverlo, dato che bisognerebbe mettere d’accordo migliaia di piccole aziende (quali i taxi di fatto sono). Il numero, in verità, consentirebbe anche un serio investimento in comunicazione senza che nessuno si sveni.

 

Credo che poche categorie, forse nessuna, comunichino male, o non comunichino affatto, come i tassisti (salvo ovviamente i rapporti con la clientela durante la corsa che però sono rimesse ai singoli). Eppure, siccome per lo più le cooperative di cui fanno parte vendono spazi pubblicitari sui veicoli, ben dovrebbero essere consapevoli dell’importanza di quel ramo. I tassisti hanno sin qui condotto la loro battaglia esclusivamente sul piano politico, e pertanto l’unica forma di comunicazione collettiva coincide con le azioni di protesta. Come ho detto vorrei glissare in questa sede sui torti e le ragioni. Giusto per focalizzare sul tema quelli che lo seguono con maggio disattenzione, i tassisti sono concessionari di una licenza, esercitano un servizio di interesse pubblico (non un servizio pubblico in senso stretto) e offrono certe garanzie rispetto a delle macchine private. Quali garanzie? Non quelle tecniche, dato che un tassista può guidare come un cane, né quelle di sicurezza personale, visto che non si legge sulle cronache di aggressioni o palpeggiamenti alla clientela da parte dei vetturini Uber. Paradossalmente la garanzia sta proprio nel prezzo, che è una tariffa convenzionata, appunto nell’interesse pubblico. L’affermazione potrà sembrare strana, visto che Uber sta costruendo la sua forza concorrenziale proprio sul risparmio del passeggero. Il fatto è che non essendoci convenzione sulla tariffa, questa potrebbe cambiare in funzione dell’eccesso di domanda sull’offerta. Faccio un esempio: il disagio provocato dallo sciopero dei tassisti in questi giorni, in condizioni normali, avrebbe alzato il costo di una corsa Uber. E’ ovvio che non poteva accadere ieri, anche per ragioni di strategia politica di Uber. Ma quando i tassisti non fossero più in gioco, Uber, che ha già creato le condizioni per un monopolio nel suo mercato, ben potrà rialzare i costi in circostanze disagevoli che mettono i clienti in competizione per la vettura.

 

La potenziale diseconomia di Uber, tuttavia, è sul sistema nel lungo periodo: il cliente guarda mediamente al tornaconto suo personale nell’immediato. Per ora gli interessa che lui risparmi cinque euro, non che chissà quando l’autista costerà due euro di più a ciascuno. Impostare dunque la contesa sul terreno politico non porterà nulla di buono, perché i portatori di interesse tendono a ragionare sul breve periodo e ciascuno per sé, e sarà la somma di quelle valutazioni egoistiche che un governo terrà presente quando dovrà stabilire chi scontentare: e quindi stabilire se c’è un numero maggiore di taxi o un numero maggiore di persone che prendono il taxi (ovviamente la seconda). Sul piano politico, è vero, si possono eccepire a Uber un’infinità di cose, a cominciare dal fatto che non gareggia ad armi pari e che tecnicamente non è una semplice piattaforma ma un’impresa che non inquadra i suoi dipendenti a anzi li sfrutta (la prossima azione legale si prepara in India: ma persino negli Stati Uniti la compatezza pro-Uber si è incrinata). Al tempo stesso, si deve pure riconoscere che, se non è il progresso, Uber, è una tappa verso il progresso e la totale disruption di questa fascia di mercato, visti i miglioramenti che si stanno ottenendo nella ricerca sulle auto senza conducente. Infine bisogna riconoscere che il taxi è un interesse pubblico sì, ma di classe, perché una parte discreta delle persone il taxi non se lo può permettere mai e una parte notevole non può certo farne un costo stabile nel bilancio familiare.

 

Avevo detto che avrei parlato di comunicazione, e mi accorgo di avere deviato. Ma anche no, perché il discorso sulla comunicazione e sul marketing rimarrebbe incomprensibile senza queste premesse.

Uno dei pilastri del marketing moderno è la responsabilità sociale d’impresa, la cui utilità viene sovente teorizzata su questo blog. Perché allora le persone se ne disinteressano quando si tratta di salire su una macchina a pagamento? La risposta è duplice: si disinteressano delle malefatte sindacali e fiscali di Uber perché non ci sono concorrenti, al di fuori dei tassisti; e si disinteressano dei tassisti perché la responsabilità sociale è una condizione minima per un servizio di interesse pubblico. E’ merito dello stato, non dei tassisti i quali (ahi loro) possono al massimo prendersi gli accidenti quando il servizio pubblico (come abbiamo detto sopra, anche un servizio per pochi) non sta funzionando secondo le aspettative.

Ora possiamo virare verso la comunicazione. Di quella dei tassisti come dicevo non c’è traccia. Siti web, social media come non esistessero. Advertising tradizionale peggio che andar di notte (a piedi, non in taxi). Guerrilla marketing, e che è? Si potrebbe continuare (devo dire che già dotarsi di uffici stampa vispi sarebbe qualcosa).

Ma se i tassisti praticassero efficacemente la comunicazione servirebbe a qualcosa? A poco, se si trattasse solo di migliorarne l’immagine. A poco uguale se lo scopo fosse di diffondere più informazione. A moltissimo se la comunicazione si accompagnasse a un vero cambiamento dell’identità.

I tassisti mi paiono un ottimo esempi di identità culturale latente. Perché dovremmo prendere un taxi? Per arrivare nei tempi che ci servono a un costo ragionevole dove ci serve. Se però i tassisti servono solo a questo, è difficile convincere le persone che dovrebbero rinunciare a prendere una macchina che li porta nello stesso posto, forse in minor tempo e magari con meno costo. Se i tassisti premono sui governi per evitare che questa possibilità entri concretamente in gioco viene da pensare che lo sappiano anche loro. E che si siano già arresi.

 

E’ necessario quindi che le ragioni per prendere un taxi diventino più ampie, ovvero che i tassisti affinino la loro identità culturale, il significato che hanno per la società nel loro complesso. Per dire, è assurdo che Uber rischi di arrivare prima dei tassisti (a Londra già lo ha fatto) nella facilità per i disabili di trovare una vettura. E allora, la storia dell’interesse pubblico?

I taxi devono incrementare, e di parecchio, l’efficienza tecnologica del loro sistema. Ma è chiaro che non potranno mai competere con Uber su quel piano (non perché Uber abbia più soldi, visto che anzi ne perde una quantità immane, ma perché è finanziata in perdita da gente che scommette sul futuro). Cosa distingue i tassisti dai vetturini Uber? Sono una comunità e non il terminale di una piattaforma, hanno un collegamento con l’interesse pubblico, hanno una tradizione di conoscenza del territorio. Quindi questi sono i terreni su cui i tassisti dovrebbero spingere: collaborazione nella loro comunità per far fronte alle esigenze più varie della clientela (io l’accompagno, tra trenta minuti viene il collega che la riprende, ora ne mandiamo un altro a prendere sua figlia al tennis), rappresentanza dell’interesse pubblico (una costante attenzione alle fasce più deboli o logisticamente con criticità di spostamento), accompagnamento sul territorio (che può funzionare magnificamente sul turista, a patto che il plusvalore garantito da costui non venga individuato nel lucrare su un percorso più lungo). E più in generale, puntare sulla relazione, che con Uber tende all’impersonalità. Tutte le indagini sul lavoro indicano che i primi candidati alla meccanizzazione saranno i lavori fungibili. Ma probabilmente sarei più riluttante a indirizzarmi verso una piattaforma, o in seguito verso il self-driving, se potessi contare sul mio tassista di fiducia.

 

Queste sono cose che andrebbero fatte, perché quando si parla di identità culturale delle aziende fare e comunicare vanno sempre a braccetto. Per intanto andrebbero progettate, comunicando schiettamente il work in progress e coinvolgendo gli utenti verso l’obiettivo. Trovare il tono e le forme giuste per dire: noi stiamo andando in questa direzione. E’ una buona cosa, no? Non scendete dalle nostre macchine proprio adesso. Per favore.

 

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