Il settore alimentare obbedisce attualmente a un imperativo categorico: specializzarsi. Nella produzione, a scapito dei brand multiofferta, le preferenze dei consumatori si orientano verso le aziende che si impegnano in una tipologia di prodotti, o si mantengono quanto meno nel solco di un’ortodossa brand extension (si può concedere al produttore di pasta di mettere in commercio anche i sughi: anche se in verità non tutti gli esperimenti sono stati positivi). Nella somministrazione, il boom dello street food si è sviluppato proprio cavalcando il “pezzo unico”. Nelle città europee più vivaci, interi isolati si connotano per infilare uno dopo l’altro locali che hanno ciascuno una peculiarità: le tapas spagnole, le piadine, il sushi, i ravioli, il fritto di pesce. Senza preventivo accordo fanno rete, perché la possibilità di scegliere tra più opzioni spinge i foodies a frequentare il quartiere e alla rotazione nell’offerta.

 

Il paradigma della specializzazione consiste nel cucinare un prodotto tipico (dunque a valenza territoriale)  con vari condimenti o cotture (o crudità). La specializzazione, in realtà, conosce altre forme: si può essere specializzati per funzione d’uso o per format di somministrazione, ma sembrano prospettive declinanti. Persino la specializzazione etnica regge solo se è molto esotica o molto di tendenza (il kebab e il sushi, per dire): è difficile che si vada a mangiare dal “pugliese” in quanto tale. La sua clientela quel ristorante dovrà conquistarsela sull’eccellenza o sul prezzo. In alcuni casi, poi, è ovvio che parlare di specializzazione sarebbe del tutto inappropriato: il pub o la pizzeria sono specializzati quanto un ristorante. In effetti, le pizzerie e le hamburgerie (una delle specializzazioni più recenti, al di fuori delle grandi catene) stanno inseguendo la strada “gourmet” per accedere a canoni che li staccano dalle aspettative, plebee per quanto succulente, della clientela. O almeno li staccavano, perché la strada “gourmet” comincia a essere piuttosto frequentata e non rappresenta più una sorpresa.

 

Dire che il food tende alla specializzazione è nulla più che una descrizione. Quello che ci si deve domandare è: durerà? Oppure è una moda passeggera e si sta creando una “bolla”?

La specializzazione va incontro a due rischi: uno è quello della parcellizzazione eccessiva, cui la strategia del marchio Slow Food sta dando una spinta. Alcuni di questi prodotti già ora non sono autosufficienti ma reggono come materia prima (ad esempio per le pizze gourmet). E’ difficile però immaginare che possano seriamente lanciarsi alla conquista dei mercati internazionali: e anche difficile che esistano margini all’infinito per l’ingresso di nuovi competitor sullo stesso prodotto di nicchia o di molti altri prodotti di nicchia. L’altro rischio è quello di un ritorno del pubblico al piacere di trovarsi in un contesto generalista, dove l’esperienza non consiste nella semplificazione della scelta ma al contrario nella sua varietà. Le tapas sono già una zona di confine. Di partenza sono una iper-specializzazione: per origine (spagnola), prodotti (il prosciutto iberico fa la parte del leone) e funzione d’uso (spezzettare la cena fuori dalla suddivisione in portate principali: le tapas hanno già sconfinato rispetto alla funzione di aperitivo). Eppure, nelle loro migliori espressioni, si discostano dall’impianto originale e riavvicinano all’idea che il piacere del cibo stia nell’accostamento di sapori diversi. Che è del resto il mantra della cucina degli chef. A un certo punto, insomma, il principio della “fusion” potrebbe travasare da pratica culinaria a pratica di consumo.

 

Quale sarà allora la sorte della specializzazione? La selezione: rimarranno in piedi quelli che continueranno a renderla un’esperienza particolare. Le vie per ambire all’identità esclusiva sono due: una è la qualità. Se si promette una specializzazione bisogna veramente essere i migliori in quell’area. E se si propongono variazioni sul tema, queste devono davvero aggiungere qualcosa alla soluzione di base: se in tutti i costosi somministratori di toast (secondo me tra i primi a rischio, quando cambierà il vento) la scelta migliore continua ad essere prosciutto e formaggio significa che qualcosa non funziona.

L’altra possibilità è fare innovazione culturale. Cambiare cioè qualcosa nel modo di far consumare quel cibo oppure nei significati che ad esso si associano: la degustazione nel locale o la consegna a domicilio ne sono esempi brillanti, ma che pure andranno rinnovati.  Il destino del cibo, da quando ha preso a occupare un posto rilevante nelle pratiche culturali (da puro agire edonistico che era non più di 20 anni fa) è quello di “complicarsi” di senso, anche quando si semplifica nelle materie prime. Sempre meno coltivare la passione del cibo consisterà nel solo mangiare.

 

Anima in Corporation supporta le aziende del food per la scelta di forme creative di specializzazione

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