E se i social media dei brand fossero una “bolla”? Secondo Douglas Holt, forse il maggior teorico della “innovazione culturale”, che ha ripreso il tema a lui caro sul numero di marzo della Harvard Business Review, siamo già oltre la fase dell’interrogativo: la vanità dell’illusione coltivata dai grandi brand, quella che scavalcare i media e relazionarsi direttamente con i clienti con approcci tipici dell’intrattenimento popolare (in sostanza riproponendo la minestra riscaldata già servita sui mass media) sarebbe ormai agli atti. Per smarcarsi dai media tradizionali e sfruttare la viralità del digitale “è nata la corsa ai grandi contenuti di marca. Ma i loro paladini non mettevano in conto una nuova concorrenza, che adesso non veniva più dai colossi dei media ma dalla folla”. Se un tempo, scrive Holt, le imprese e i mass media fungevano da intermediari dell’innovazione culturale che proveniva dai margini della società in opposizione alle convenzioni tradizionali, oggi i social media rendono interconnesse le comunità: è l’esplosione della crowdculture. “Oggi troverete una sottocultura fiorente intorno a qualunque argomento: il caffè espresso, la fine del Sogno Americano, la stampa 3D, i film di animazione giapponesi, il birdwatching, il barbecue. In passato i membri di queste sottoculture dovevano riunirsi fisicamente e avevano mezzi molto limitati per comunicare collettivamente, riviste specializzate e successivamente i primi gruppi di utilizzatori che si formavano sulla Rete e i meet-up. I social media hanno ampliato e democratizzato queste sottoculture. Con pochi click potete mettervi al centro di qualunque sottocultura…Oggi milioni di agili imprenditori culturali si riuniscono on line per affinare le proprie tecniche, scambiarsi idee, mettere a punto i contenuti e competere per la produzione di grandi successi”. Il succo è che i numeri dei brand sono ridicoli a fronte di quelli di tanti carneadi venuti fuori dal nulla. Il canale You Tume di McDonald’s è al n. 9914 della classifica comandata da un tale PewDiePie, uno svedese che posta filmati amatoriali con dei commenti stizziti fuori campo sui videogame e che sta facendo a che con una spesa quasi inesistente 200 volte le visualizzazioni del grandi brand. Il sito della Coca Cola non è nemmeno tra i primi 100.000 degli Stati Uniti. I social media degli attori, dei cantanti o dei calciatori fanno numeri che i brand non vedono neppure col cannocchiale: d’altronde “non dovrebbe essere una sorpresa. Interagire con un entertainer che si ama non è come interagire con un brand di autonoleggi o di succo d’arancia. L’idea che i consumatori possano parlare di Corona o di Coors nello stesso modo in cui discutono del talento di Messi o Ronaldo è semplicemente assurda”.
Holt sostiene che il boom dell’agricoltura biologica, ad esempio, nasce come successo di una crowdculture che alcune aziende sono state pronte a cavalcare (un esempio è Chipotle, che ha avuto successo perché si è inserita in questa crowdculture e ne ha sposato la causa). L’indicazione finale è che, prendendo di mira ideologie innovative che emergono dalla crowdculture, i brand possono affermare un punto di vista visibile nell’ambiente mediatico, saturo di messaggi.
Buona parte della tesi è del tutto condivisibile: però mettere sullo stesso piano i fan di un brand e quelli di uno che urla e gesticola davanti a una webcam sorvola sul fatto che la seconda attività, salvo pochissime eccezioni, non rende nulla. E’ vero che i brand non hanno sul web una popolarità pari alla loro fama e alle aspettative ma è vero pure che i loro fan hanno un peso differente e che comunque il punto critico è l’incontro tra la diffusione sul web e il rendimento economico che ne può derivare.
La lezione principale che le aziende possono ricavare mi sembra piuttosto questa: è più interessante (per il pubblico potenziale e quindi indirettamente anche per le aziende) parlare di argomenti che le persone condividono che non del brand. E se poi è centrato su se stessi, il discorso sull’azienda è più coinvolgente del discorso sul brand: perchè l’azienda è reale, proprio come Messi e Ronaldo (o quasi).
La rivelazione che in definitiva può suonare sconcertante è: le aziende, anche quelle grandi, non hanno imparato a usare i social media. Li hanno impiegati al modo adolescenziale che si potrebbe riassumere in : parliamo tanto di me (anzi, del mio brand).
Con Anima in Corporation suggeriamo a ciascuna azienda di cosa sarebbe opportuno che parlasse. Voi di cosa parlate? Volete sapere come potremmo aiutare che la vostra azienda si distingua sui social media?
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