“Sono quattordici anni che ti scusi”, ha detto un giornalista a Mark Zuckenberg in una conferenza stampa successiva al caso Cambridge Analytica. Ma le scuse del padrone di Facebook, che hanno raggiunto il picco nell’audizione al Senato, si possono considerare un buon modello di gestione comunicativi della crisi?

 

Il crisis management è diventato un’area di intervento aziendale significativa, di pari passo con la diffusione del concetto di “reputazione” quale fattore basilare della credibilità di un’impresa e quindi difesa del suo business. Spesso si tendono a sovrapporre situazioni diverse, che fanno quasi di tutt’erba un fascio: l’avvelenamento con il cianuro ad opera di alcune confezioni di un analgesico della Johnson & Johnson o la perdita di un bagaglio del cliente di una compagnia aerea. E’ vero però, che con l’avvento della Rete, anche un granello di sabbia come un bagaglio rovinato può danneggiare gravemente la reputazione di un’azienda che non sia tempestiva nell’affrontare l’evento: esemplare fu il caso di United Airlines che subì un grave crollo d’immagine per i 15 milioni di visualizzazioni web del video di un chitarrista cui si era rotto lo strumento durante un viaggio e che ora diffondeva la sua nuova composizione canora: “United reaks guitars”). E notevole in Italia fu il caso di Mosaico Arredamenti che incautamente intraprese azione legale contro un cliente che si era lamentato in rete e di fronte alla levata di scudi sul web contro l’impresa e al sensazionale boicottaggio che ne seguì non si riprese mai più dal tracollo.

 

Già questi due ultimi episodi ci avvertono che i modi in cui un’azienda “perde la faccia” rispondono a fenomeni distanti, riconducibili a due macrocategorie: gli errori di funzionamento e gli errori di opinione. Quello di United Airlines è un errore di funzionamento, dato che compito delle compagnie aeree sarebbe consegnare intatti i bagagli. Quello di Barilla che escludeva le unioni omosessuali dal novero delle famiglie di riferimento fu un errore di opinione. In mezzo ci sono varie gradazioni che però sono riconducibili tendenzialmente all’una o all’altra fascia. La mancata tutela dei dati da parte di Facebook, anche se non è propriamente l’oggetto del servizio (che anzi si propone dichiaratamente di appropriarsene) è comunque un cattivo funzionamento, poiché altera il senso stesso del servizio (se non di tutta l’azienda). Il caso di Mosaico Arredamenti somiglia di più a un errore di opinione (quella che i clienti non possano senza prove dir male di un’impresa). Anche il messaggio di Starbucks agli irlandesi, che ne celebrava il patriottismo inglese, è di fatto un errore di opinione, benché materialmente non sia derivato dall’ignoranza della questione storica ma dal “banale” invio ai destinatari sbagliati (d’altronde se batto la testa contro il vetro perché non l’ho visto, il male che me ne deriva è pur sempre frutto dell’infondata opinione che potessi attraversare liberamente uno spazio ostruito).

 

Quel che accomuna però entrambe le fattispecie è che il danno effettivo per l’impresa non deriva dalla commissione dell’errore ma dall’incapacità di arginarlo sul piano comunicativo.

Per questo, entro certi limiti, è persino ininfluente che l’errore ci sia stato o meno. La Findus, sui social media, ha ricevuto l’aggressione di alcuni suoi follower perché comprava inserzioni pubblicitarie dentro un programma politicamente orientato (e naturalmente se ne lamentavano i sostenitori della fazione opposta). In realtà, la Findus si affidava a un’agenzia media e comprava spazi orari, senza nessuna adesione politica. Ma se non avesse correttamente, tempestivamente e con misura, eccepito questa circostanza, le sarebbe rimasta attribuita un’opinione sgradita (che, poi essendo politica, non poteva per definizione essere “erronea”, non almeno nel senso che qui intendiamo).

Dato che i due affluenti vanno a finire nello stesso fiume, siamo in grado di trarne indicazione di comunicazione nella gestione della crisi che siano valide sia per gli errori di opinione come per gli errori di funzionamento, sia per gli scandali che per i malfunzionamenti in un servizio, sia per le scuse di Zuckenberg che per le scuse del pizzaiolo che ha tenuto troppo tempo l’impasto nel forno?

 

Una sorpresa proviene da un autorevole studio statunitense, riportato sull’Harvard Business Review di pochi mesi fa, dal quale si ricava che, trascorsi sette secondi (non lo dico per gioco, è proprio un risultato dell’indagine), un cliente si stufa di ascoltare scuse e desidera invece che gli offrano un rimedio. Quel che per anni è stato rubricato, dal marketing, nell’ambito dell’apprendimento empatico, rivela invece l’aspettativa di un problem solving. In una prossima occasione mi soffermerò sui tipi di atteggiamenti di scusa e sulla loro differenziata opportunità (dallo “smile” allo “zen”, dall’ “infiltrated” all’ “into action” ) ma qui mi interessa evidenziare che per l’azienda non è tanto importante chiedere scusa quanto farsi scusare, e non è davvero detto che il secondo esito passi da un’accentuazione del primo (credo in effetti che sia parzialmente da ripensare la strategia stuoino che impera sui social). Ed ecco, ritornando a Zuckenberg, vediamo come le sue scuse non siano state un modello di comunicazione, specie se è vero che non durano da sette secondi ma da quattordici anni…

 

Che sia trasportato in contesti socialmente più significativi o sia circoscritto al malessere del singolo stakeholder, “farsi scusare” diventa più semplice se concorrono alcuni fattori:

  • la crisi non viene affrontata in modo seriale perché non è una scienza ma una tecnica, e richiede l’adattamento al caso concreto (e a monte l’impiego di toni e mezzi coerenti con l’identità dell’azienda) e la “fluidità” fa parte della gestione di una crisi;
  • è visibile un “prima” e un “dopo” l’errore e le scuse: l’azienda cioè offre una promessa concreta (che sia: ti faccio arrivare il bagaglio in stanza alle quattro e un quarto o evito che gli hacker russi si impossessino dei tuoi dati) che deve poi ottenere un riscontro di fatto;
  • l’azienda ha una struttura e una modalità di servizio sufficientemente flessibile per reagire positivamente e in tempi rapidi alla crisi;
  • l’azienda, nel quotidiano, enuncia o persegue attivamente valori che fanno apparire l’errore un incidente di percorso e non l’inevitabile ricaduta del suo funzionamento o delle sue opinioni.

Insomma, più andiamo avanti, più il modello Zuckenberg pare scadente…per ora lui se lo può permettere ma guai a imitarlo!

 

A margine vale la pena di aggiungere alcune conclusioni:

  1. La gestione della crisi mette in gioco la comunicazione e l’operatività dell’impresa: il fallimento dell’una rende vano il successo dell’altra.
  2. L’azienda deve cominciare a rispondere alla crisi quando questa non si è ancora manifestata! E’ la conoscenza dei punti deboli e la predisposizione delle strategie comunicative opportune (anche a mezzo di simulazioni) che consente di non rimanere spiazzata di fronte alla crisi, e pure di affinare per tempo quell’identità aziendale che dispone positivamente la clientela e il pubblico.
  3. Troppo spesso la tutela della reputazione viene ristretta alla web reputation. Ma oggi non ha senso continuare a distinguere tra online e offline, poiché il nostro habitat complesso li comprende e fonde. E’ quel che si chiama infosfera e di cui, in tutt’altro contesto, ho scritto qui.
  4. Non aveva torto Luciano Benetton a dire che “la comunicazione non si deve comprare da un fornitore esterno ma deve nascere dal cuore dell’impresa”, e a maggior ragione nella situazione di crisi. Le risorse interne però hanno estremo bisogno di confrontarsi costantemente con un “editor” che riporti un partecipe punto di osservazione esterno e che sappia misurare il delicato equilibrio tra detto e non detto, che nella comunicazione dei momenti critici è a forte rischio di precarietà.

 

Anima in Corporation per costruire la comunicazione di un’azienda che sa farsi scusare. Persino in anticipo.

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