Questa volta voglio parlare di una cosa particolarmente teorica. Se però avrete la pazienza di leggere vi renderete conto di come quel tipo di teoria condizioni la pratica della comunicazione.

 

Tu organizza la festa che io ci metto la casa. Può funzionare anche tra Facebook e i quotidiani? Zuckenberg si è convertito alla tesi della complementarità tra social e testate giornalistiche. Accusato, al pari di Google, di parassitismo per l’utilizzo di contenuti creati dai media tradizionali e alla corde per la difficoltosa gestione delle fake, FB ha già dal 2016 coniato i cosiddetti Instant Articles, cioè la pubblicazione degli articoli direttamente su FB, senza rimandare al sito di origine: veloci da caricare, ottimizzati nelle metriche di lettura, standardizzati nella visualizzazione, retribuiti da FB con una parte degli introiti pubblicitari. Ciononostante, il Guardian e il New York Times, dati alla mano, hanno annusato odore di fregatura e hanno sospeso la sperimentazione (e anche la parallela sperimentazione sulla produzione di video, egualmente destinati a FB, e teoricamente ancora più redditizi in termini di advertising). Zuckenberg ha così rilanciato, annunciando che ora sarà possibile abbonarsi alle testate direttamente da FB (senza che venga trattenuta alcuna percentuale) dopo la lettura di un certo numero di Instant Articles. Inoltre, per rinforzare la visibilità della fonte giornalistica, in calce all’articolo su Fb sarà riportato il suo logo.

 

Che possa bastare il logo in cima per temperare il cannibalismo di FB fa abbastanza sorridere.

In un recente saggio, (“McLuhan non abita più qui” pubblicato da Bollati Boringhieri), Alberto Contri si domandava se con l’avvento del web fosse sempre valida la massima del grande sociologo statunitense “Il medium è il messaggio” e perveniva a una risposta parzialmente negativa.

Pare a me, al contrario, che lo slogan di McLuhan sull’assenza di neutralità del medium sia più vivo che mai, ma vada aggiornato considerando il medium non per la sua struttura generale ma nella sua declinazione particolare. In altre parole se in passato il concetto di medium era da riferire globalmente alla televisione o alla radio, adesso Google o Facebook costituiscono due mondi tra loro a se stanti non racchiudibili in un’unica definizione di media, e hanno un potere condizionante del destinatario molto superiore.

In realtà, da un lato, tutto quello che oggi facciamo con tutti i media è in qualche modo la stessa cosa: come ha intuito Geert Lovink, indipendentemente dal fatto che siamo al cinema, in tv o davanti al mobile guardiamo software. Di contro, i software di Google o Facebook rispondono perfettamente alla tesi di Luca De Biase per cui “prima progettiamo i nostri social network e poi essi disegnano il nostro pensiero. I computer non sono strumenti passivi al nostro servizio: hanno una logica, un’architettura, un’interfaccia, una struttura di senso, un funzionamento algoritmico e tutto questo ha conseguenze sul comportamenti di chi li utilizza”. Se proprio si dovesse aggiornare il pensiero di McLuhan bisognerebbe così ritoccarlo: il software è il messaggio.

 

Tutto ci diventa più chiaro se richiamiamo la nozione di “affordance”, introdotta dallo psicologo cognitivo William Gibson per indicare le qualità fisiche di un oggetto che suggeriscono all’uomo le azioni per manipolarlo: ottimi esempi ne sono il cucchiaio o la caraffa, ma anche una superficie piatta orizzontale possiede l’affordance di camminarci sopra e una verticale possiede l’affordance di bloccare. La maniglia di una porta ha un’ottima affordance, al contrario delle porte scorrevoli, e così via.

L’affordance, peraltro, dipende anche dalle convenzioni e dall’ambiente. Il giornale ha una sua affordance (limitata), che consiste nelle pagine. Capiamo che sono concepite per essere sfogliate, ma non siamo obbligati a farlo secondo un ordine piuttosto che un altro. Se però il giornale è in una sconosciuta lingua esotica e fa parte di una pila accatastata vicino al camino quel che mi viene suggerito è di usarlo per accendere il fuoco.

Lo psicologo e ingegnere Donald Norman, al riguardo, ha distinto tra affordance reale e affordance percepita, e imparentato la seconda con il design grafico dell’interfaccia che spinge a un’azione piuttosto che un’altra. In questi termini l’affordance digitale si confonde con l’usabilità (termine assai di moda nel web design) di un programma, che è la sua capacità di rispondere alle nostre aspettative di utilizzo.

L’affordance di una porta, tuttavia, non interferisce, di solito, con quel che accadrà dietro la porta, al massimo incide sulla mia determinazione a entrare. Egualmente, che la miscela sia Lavazza oppure Illy non cambia il mio rapporto con la caffettiera e quell’affordance che è la sua maniglia.

L’interfaccia come Facebook, invece, non si limita a dirigere le nostre aspettative sul funzionamento del software in modo più deciso di quello che è in grado di fare un giornale di carta, o anche un giornale digitale che conserva le sue prerogative concettuali quando migra i contenuti verso il web. Essendo un mediatore totale verso il mondo, non ci dice solo come usare Facebook ma ci dice come usare il mondo quando siamo su Facebook. E ci suggerisce di prenderlo con troppa leggerezza o con troppa aggressività; di fermarci alla superficie; di cercare di piacere agli altri, a costo di essere banali; di non leggere per più di sei righe; di rimanere “connessi”: di parlare molto di noi. Tutto legittimo. Ma purtroppo incompatibile con i contenuti di un quotidiano. Una cosa è servirsi di Facebook come bacheca e ponte verso la propria pagina, sottostando alle regole comunicative di FB finchè ci si trova in quell’ambiente. Un’altra illudersi che il lettore possa disporsi allo stesso modo, nella pagina on line del quotidiano come su FB. Se i quotidiani non ci arrivano è segno che sono già passati dagli instant-articles all’instant-pensiero.