Le inserzioni pubblicitarie prendono sempre più decisamente la strada del web: gli investimenti hanno raggiunto il 34% di quelle complessivi. Possono esserne lieti i siti che la ospitano e soprattutto le piattaforme che ve la veicolano. Ma possono essere ad oggi soddisfatte anche le aziende?
Quando si dice pubblicità sul web si entra in un mondo enormemente variegato che va dalla semplice sponsorizzazione sui social alla massima raffinatezza del brand journalism: ciò di cui voglio occuparmi oggi sono le “inserzioni” classiche, spot o banner che compaiono sullo schermo del navigatore. Si tratta quindi delle forme impiegate prima dell’avvento del web, riprese su quest’ultimo. Ebbene, nel travaso dalla tv, o dall’inserzionistica, a Internet è andato perduto quell’elemento essenziale del successo pubblicitario, consistente nella contestualizzazione appropriata. Ci si cura del contenuto (non sempre con grande fantasia, in verità), del device, della profilazione: ma non più del momento e dell’ambiente in cui il potenziale cliente incontrerà la pubblicità.
Mi spiego con un esempio: mi è capitato sabato scorso di cercare notizie dell’attentato a Stoccolma sul sito di Repubblica. Dopo una breve permanenza sullo schermo, la foto del sospetto attentatore è stata sostituita da quella di un modello di Paul e Shark. Quando, con una certa fatica, sono riuscito a ripristinare la pagina, che conteneva nella parte superiore altre notizie cruente oltre quelle di Stoccolma, sui lati del display si è posizionata la pubblicità, addirittura interna di Repubblica, dello spettacolo comico che Max Giusti comincerà sull’emittente tv.
Questo tipo di campagne, rispetto ad altri format nati in maggiore sintonia con il medium digitale, presentano già il problema della misurazione. Molte non hanno un tasso di conversione e non richiedono una call to action in tempo reale (o non è comunque una call to action significativa).
Pure sui media tradizionali, tranne che per pochi casi, mai è realmente dimostrabile la diretta connessione tra un’azione pubblicitaria e un buon risultato commerciale: capita pure che la gente si accorga di una pubblicità quando molte persone ne parlano, e che per così dire la pubblicità diventi…pubblicità della pubblicità e solo in un momento successivo pubblicità del prodotto o dell’azienda. Gli obiettivi vanno considerati su un termine medio-lungo e si sostanziano nel rafforzamento del brand.
Questa forma di pubblicità, sui media tradizionali, ha conosciuto una forte contrazione a vantaggio del web per due ragioni particolari: il tasso di affollamento degli spazi e la modalità di “interruzione”, che suscitava irritazione in un pubblico che il web stava familiarizzando con l’abitudine a centrare il punto dei suoi interessi senza perdere tempo.
Rapidamente il quadro si è rovesciato: la corsa alle inserzioni sul web ha intasato anche gli spazi sul display e ha creato modalità interruttive ancora più assillanti. Una vera e propria violenza per l’utilizzatore, sempre in modalità speed, del web. Da qui la nascita degli ad blocker che eliminano i pop-up e i banner pubblicitari. Alcuni media hanno deciso di non dare accesso ai contenuti a chi ha installato un ad blocker: una posizione comprensibile sul piano teorico, dato che la fruizione gratuita dei contenuti ha pur bisogno di essere sovvenzionata da qualcuno.
Nella cura esclusiva della profilazione, però, si è perso di vista un principio consolidato della pubblicità è che essa debba essere in linea con il mood della situazione alla quale si sovrappone. Anche sul web le migliori espressioni pubblicitarie, quelle sviluppatesi dalla natura del media, come il native o l’instant advertsing sono ligie a questa formula. Persino gli slogan pubblicitari hanno un loro galateo di contestualizzazione. L’apertura indiscriminata dei pop up (che già scaturisce dal remarketing, quello che segue la navigazione dell’utente) è una manifestazione di dilettantismo comunicativo, una resa alla velocità ingovernabile dall’algoritmo, un rischio costante di infausto abbinamento emotivo. Per non dire della ostinata violazione delle aspettative di navigazione attraverso l’interruzione sistematica.
Meglio farebbero le imprese a rivedere la tempistica degli spot, a studiare meglio la loro collocazione, a ristabilire insomma un diverso, tacito patto di tolleranza con i consumatori. E forse, per ora, ad allocare diversamente le proprie risorse. Questo difetto strategico, che ha qualche possibilità di restare invisibile nel medio periodo nelle grandi aziende, potrebbe essere letale per le campagne di brand meno stabilizzati. Infatti, il pubblico dello smartphone (il device sul quale maggiormente stanno convergendo gli investimenti pubblicitari) respinge l’annuncio intrusivo il 39% in più di quanto facciano gli utenti sul pc.
Qual è la tua esperienza di pubblicità su Internet? Prova a comunicarcela per ricevere un suggerimento migliorativo.