Se vi fate un giro tra i magazine in una buona edicola francese, a un certo punto vi imbattete in “Conseils de notaires”, un trimestrale edito dai notai transalpini che è arrivato al numero 465 (in verità con un criterio di numerazione non tanto trasparente). Non viene distribuito gratuitamente ma costa sette euro e cinquanta e ha una veste grafica più che decorosa nel panorama delle riviste. Sicuramente rappresenta un modello esemplare di brand journalism (passatemi, per comodità espositiva, di parlare del notariato come fosse un “brand”). Le aziende che seguono questo blog conoscono ormai il termine, che è stato oggetto di diversi post, ma forse i professionisti no: significa che degli enti (corporation, associazioni, istituti pubblici, o anche studi professionali) diventano seriamente media in proprio e pubblicano magazine (in formato web o cartaceo) proponendosi quali opinion leader nelle aree legate alla loro produzione o attività. La caratteristica del brand journalism, dunque, è che l’ente editore non si pone al centro del discorso, come si trattasse di una promozione diretta o di un catalogo, ma trasmette il senso della sua competenza parlando autorevolmente di quel che interessa alle persone.
“Conseils de notaires”, in effetti, tratta di imprese, matrimoni, divorzi, previdenza, investimenti, discendenza, mercato immobiliare. Ma la notizia non è mai: “il notaio aiuta le imprese” o “corri dal notaio se pensi di sposarti”. La notizia e i commenti sono davvero i bisogni delle persone. Che possano risolverli attraverso i notai emerge, con delicatezza, dal contesto che ospita gli articoli.
Con riguardo al singolo studio professionale più di una volta, in questo spazio, focalizzato quel che dovrebbe essere il messaggio centrale di una buona comunicazione (ti faccio capire veramente perché scegliere me e non un professionista concorrente) e sottolineato come esso costituisca ad oggi un’eccezione. Abbiamo anche più volte ragionato su perchè affrontare di petto la questione comunicativa, per un professionista, non significhi svendere il suo decoro, ma al contrario curare la sua identità pubblica in modo che non si appiattisca su quella commerciale e rappresenti persino un fiore all’occhiello della sua deontologia.
Il ritardo, tuttavia, riguarda gli stessi ordini professionali. Naturalmente gli ordini hanno esigenze diverse dai propri iscritti: a loro interessa, in primo luogo, qualificare la funzione. Essi però continuano ad affidarsi a mezzi tradizionali, omettono l’esplorazione delle nuove tecnologie e utilizzano i propri canali di informazione in modo commisto e confuso, senza che ne sia chiaro l’obiettivo. Il frequente cumulo dentro un unico contenitore delle informazioni per gli iscritti e per il pubblico crea un corto circuito di linguaggi e intenti. La comprensibile ritrosia nel ricorrere alla comunicazione “tecnicamente” pubblicitaria sfocia nella tentazione di…rifarsi, usando qualsiasi canale come megafono di parte: di rado il pubblico crede all’onestà intellettuale delle argomentazioni utilizzate per accreditare il ruolo sociale delle categorie professionali. Persino il passaggio di dati che avvalorano l’utilità o le rivendicazioni di un ordine professionale sono proposti di solito in un modo difettoso, per il tono, o per la collocazione, o per una debole capacità di favorirne la lettura corretta.
Altro difetto è la centralizzazione nazionale della comunicazione (quando c’è…). La quasi totalità delle persone prende conoscenza degli ordini a livello locale, anche sul web. E’ sul territorio che la professione può intercettare i consumatori (nome che i professionisti non amano: però intanto gli ordini inseguono gli accordi con il Codacons…) e smantellarne i pregiudizi. O, quando è il caso, riconoscere che non si tratta di pregiudizi e rimodellare la professione in modo più consono al cambiamento di alcuni bisogni.
Senza arrivare all’estremo di stampare magazine cartacei (peraltro in Italia sarebbe una pessima idea), basterebbero siti web diffusi, ordinati, coerenti, discorsivi e socialmente espressivi per stabilire un contatto diverso tra le professioni e quella parte di pubblico che ne diffida (e forse persino per ricevere spunti rigeneranti).
Anima in Corporation, specialista della comunicazione per gli studi e gli ordini professionali. Per informazioni