Lush controlla la filiera etica non solo in termini di responsabilità sociale. Tutti i suoi fornitori devono uniformarsi alla scelta di Lush che è la totale esclusione della sperimentazione sugli animali. Credo che questo sia un buon caso di distinzione tra responsabilità sociale e identità culturale. I test sugli animali, per la cosmesi, sono vietati nell’Unione Europea per i prodotti finiti ma non per le singole componenti, che continuano a essere sottoposte alla sperimentazione per il 90%. A favore della sperimentazione animale sono portati alcuni degli argomenti che fungono da giustificazione anche nella sperimentazione farmaceutica. Prendere posizione contro, quindi, esprime una personale visione dell’etica che colloca culturalmente l’azienda in un discorso sociale. Nell’ambito degli strumenti culturali, il no ai test animali rientra tra le militanze, anche perché alla radicalità della scelta produttiva si accompagna una campagna di persuasione ferocemente espressiva, nella quale Lush ha messo le sue vetrine a disposizione di un performer contemporaneo per mostrare tutti i trattamenti che l’animale subisce durante la sperimentazione. In un’altra occasione, la vetrina è stata da un graffitaro cosparsa di scritte bulliste e i clienti invitati a cancellarle, richiamati a una presa di consapevolezza del fenomeno e simbolicamente esortati a contrastarlo.

Il rifiuto della sperimentazione si inserisce in un’attenzione più generale all’ecosistema che spinge, ad esempio, a preoccuparsi della sorte degli avvoltoi (altro capolavoro il titolo della campagna: chi salverà il brutto anatroccolo?), avvelenati dal Diclofenac, un farmaco antinfiammatorio ad uso veterinario, che provoca la morte, pare molto dolorosa, del rapace che lo ingerisce attraverso il corpo dell’animale morto di cui si ciba. Una mobilitazione, questa, che per la scarsa simpatia di cui godono gli avvoltoi ancor meno è suscettibile di sospetti di strumentalizzazione. Altre mobilitazione in tema sono rivolte alla richiesta di vietare le corse dei levrieri e la pesca a strascico.

Fra le presenze sociali di Lush vi è la posizione antiomofoba con #gayisokay, che ha raggiunto trenta milioni di contatti e quella contro le trivellazioni petrolifere in Canada. Ma Lush vola altissimo e non esita a scagliare i suoi anatemi contro il TTIP, il Trattato di Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che si accingono a firmare Europa e Stati Uniti, dichiarando senza mezzi termini che esso peggiorerà la qualità di vita degli europei, abbattendo le barriere alle sabbie bituminose, all’uso del piombo nei rossetti, istituendo una sorta di tribunali aziendali dove trascinare in giudizio i governi che si frappongono al volere delle multinazionali ( e molte altre cose). Accade quello che ho ipotizzato più volte: non solo chi usa Lush apprende che è contro il TTIP (e il più delle volte apprende l’esistenza del TTIP, che è già materia da bene informati) ma chi è contro il TTIP apprende che Lush prende questa posizione. Che, beninteso, alcuni possono considerare estremistica (fotografando un pezzo importante dell’identità culturale di quest’impresa, che è estremista) ma che altri possono considerare decisiva per orientarsi verso i suoi prodotti.

Lush sa volare alto anche volando basso: non mancano progetti comunitari e tra questi merita menzione “porta l’orto a Lampedusa”, il sostegno a una Onlus che non avrebbe certo potuto dare risonanza all’idea, quella di orti urbani nell’isola che servano a ricerche di sperimentazione agricola, creino luoghi di aggregazione e socialità, valorizzino la capacità di accoglienza dell’isola.

Come si vede, Lush riesce a immergere tutta la sua produzione dentro i discorsi sociali e non esita ad allargare la sue aree di interesse contiguo né a frequentare palcoscenici diversi dal suo store o il suo sito, sul quale peraltro dà conto delle iniziative e pubblica un web magazine quasi coincidente con un magalog che contiene qualche germe (pochi, in verità) di corporate journalism.

Un magnifico modello per illustrare cosa sia l’identità culturale, benché sia opportuno precisare che non siano obbligatori la stessa ampiezza e nemmeno il medesimo radicalismo sociale. Un’idea di mondo migliore, però, sì. Spetta alla singola impresa indicare quale sia la direzione che la società deve prendere, secondo la sua visione.

 

Tabella identitaria di Lush

 

 
Comportamenti

 

estremismo sociale non violento e ambiente amichevole
Appartenenze collettive vegani, animalisti, epigoni della generazione X femminile
Valori rispetto per il prossimo, per gli animali per la natura; ecologia
Aree di interesse contiguo

 

dinamiche internazionali del commercio; sofferenza ed estinzione delle specie animali; bullismo e omofobia
Immaginari sensualità gioiosa e armonia

 

Tratto dal libro di Remo Bassetti L’IDENTITÀ  CULTURALE DELLE AZIENDE, 2016 Franco Angeli