Un utilizzo magistrale del marketing e della comunicazione moderni che può essere da esempio per qualsiasi azienda

Lush,  azienda di cosmetici che oggi conta oltre 900 negozi in franchising nel mondo, è nata nel 1995 a Poole, in Inghilterra, dall’iniziativa di cinque vegetariani e vegani che hanno deciso, sin da principio, di bandire la chimica dai loro cosmetici per fare spazio a oli essenziali, verdura e frutta fresca. Non prodotti industriali, dunque, ma rigorosamente artigianali.

Lush si traduce con sontuoso, lussureggiante: il nome già respinge i senso spartano che l’accento posto sula natura potrebbe evocare e prelude a una comunicazione frizzante e scanzonata. Lo sforzo è quello di mettere insieme impegno sociale e leggerezza.

Si può dire che Lush dà fondo a tutti gli strumenti culturali, ad eccezione delle alleanze e dell’intelligenza di rete, come se il networking potesse scalfire la sua unicità.

Lush, per prima cosa, incorpora i discorsi sociali nell’essenza della sua produzione. Non solo nell’oggetto (i cosmetici) ma anche in ciò che lo completa, le confezioni e i materiali.

Quanto al packaging, infatti, la posizione di Lush parte dall’ottimizzazione della loro eliminazione, quando si può, per planare, quando non è possibile farne a meno, sul riciclo e riutilizzo.

La rottura di Lush con il mondo della cosmesi, relativamente al packaging, si può apprezzare confrontandola con l’atteggiamento dei concorrenti, specie quello di maggior livello. Una crema di cosmesi, di solito, è conservata in un barattolo con un’etichetta sigillato da una pellicola di plastica e collocata dentro una piccola scatola di cartone rigido, fasciata da un carta che dice in cosa questo prodotto sia migliorativo del precedente. All’interno, oltre al barattolo, c’è un pieghevole che informa sugli ingredienti e promuove gli altri prodotti della casa. Non di rado vi è un involucro di plastica all’interno.

Lush, invece, ha una confezione sola: un unico adesivo sopra un caratteristico vasetto nero menziona il tipo di prodotto e il suo effetto dominante, la data di scadenza, ed esibisce, disegnato, il volto di chi lo ha materialmente realizzato e il suo nome. La plastica è riciclata.

I materiali, tuttavia, vengono studiati per eliminare quasi completamente il packaging, grazie alla solidificazione di prodotti che gli altri commerciano liquidi o al massimo nebulizzati, come lo shampoo, il deodorante, il balsamo per i capelli, il dentifricio (in pasticche), il tonico per il viso. In questi casi l’imballaggio si riduce a un foglio di carta oleata o una piccola bustina di carta riciclata.

L’originalità della soluzione consente un risparmio di 5,7 milioni di bottiglie di plastica, ma l’impatto ecologico va oltre: uno shampoo solido di 55 grammi equivale a 750 grammi di shampoo liquido, determinando risparmio e minore dispersione, e contribuendo a ridurre l’inquinamento, dato che il carico trasportabile in un solo camion corrisponde a quello che ne richiederebbe 15 se si trattasse di shampoo liquido. Lo si apprende dal sito di Lush che è molto efficace nello scegliere le rappresentazioni dei suoi effetti: dove si spiega che usando (quando necessario) la plastica riciclata invece che la plastica vergine si risparmieranno 900 barili di petrolio si aggiunge che con l’energia risparmiata per ogni bottiglia si può tenere accesa una lampadina da 60W per sei ore.

L’ecologismo di Lush assegna alla sensorialità, ai colori, alle strategie linguistiche il compito di sdrammatizzarlo, o meglio di non caricarlo di quei sottintesi penitenziali che la parola “ecologia” attiva. Riporto qui un bel passo di Laura Rolle, espresso in un contesto legato alle acque minerali: “Il termine “eco” sembra portare con sé l’idea di un prodotto impoverito, meno performante nell’azione, meno gratificante (anche esteticamente), più scomodo e impegnativo per il consumatore, soprattutto nello smaltimento. Il prodotto “eco” rientrerebbe in un modello basato sulla diminuzione, sulla sottrazione, vissuto quasi come una punizione a cui si sottopone il cliente responsabile, quasi a espiare le colpe di un’umanità poco rispettosa delle risorse del mondo”.

Ma l’universo di Lush è giocoso, trasgressivo quasi. I suoi prodotti non solo si cimentano con le leggi della fisica ma affidano l’iperstimolazione ai profumi e ai colori. Per il bagno, in luogo del sapone e dei sali, propongono le ballistiche, bombe da bagno che rilasciano una schiuma frizzante e dal colore schocking. Hanno inventato anche la plastilina detergente, che consente di manipolare il panetto per la doccia sino a fargli assumere la forma preferita.Le narrazioni riguardano essenzialmente l’azienda e il suo modo radicale e schietto di essere “green” ma ogni prodotto apre a un significato più esteso, riferito soprattutto all’ambiente naturale cui il singolo prodotto fa riferimento (come ad esempio il gel Mediterraneo).

L’espressione dello spirito polisensoriale di Lush induce a un passo indietro persino nelle architetture e scenografie dei negozi, e nei decori interni: posti abbastanza nudi, con la segnaletica affidata al gessetto bianco sopra lavagnette nere, e tuttavia un’esplosione di colori dei loro prodotti, nudi a loro volta, e impilati. Il sapone di Lush si taglia a fette e nella sua lunghezza, insieme agli altri, costituisce sia una coreografia che un’architettura interna. Persino nel megastore di 1000 metri quadri che nel 2015, per il ventennale, Lush si è regalata a Oxford Street: esso  contiene arredi in legno di recupero, muri e pavimentazione con materiali riciclati e sensori per controllare il livello di illuminazione dei led. Tutto è organizzato in modo che i colori dei saponi e degli atri prodotti siano l’arredo effettivo.

Il marketing sensoriale di Lush non comprende la disseminazione artificiale di essenze, l’odore è emanato solo dai loro prodotti. Quando, sul sito web, Lush parla del cervello affettivo coinvolto dagli odori non vira nel tecnicismo scientifico ma tanto meno si scioglie (sarebbe ben grave per un solidificatore!) in verbosità scontate. Poche righe chiare, in cui non manca però di inserire i bulbi olfattivi e il sistema limbico, e chi conosce l’intelligenza emotiva teorizzata da Daniel Goleman apprezza il rimando.

Le strategie linguistiche sono talmente importanti da avere indotto all’arruolamento di traduttori per conservare i calembour: in italiano i loro prodotti hanno nomi come Questione di peeling, Nove agrumi e mezzo, Crine tempestose, Labbrividisco. Nei loro store, dove ci si aggira rilassati e si “testano” i prodotti senza nessuna pressione all’acquisto c’è scritto: “Puoi toccare e annusare tutto tranne i commessi”.

 

Tratto dal libro di Remo Bassetti L’IDENTITÀ  CULTURALE DELLE AZIENDE, 2016 Franco Angeli