Identità culturale per misurare la qualità di un’impresa
L’identità culturale, ovviamente, può riguardare non solo le aziende in senso stretto ma pure le associazioni o altre forme di enti. A maggior ragione una fondazione bancaria, istituzione nata in Italia sulle ceneri delle casse di risparmio e che, nonostante un discreto numero di interventi legislativi, non ha ancora dissipato ogni ambiguità sulla propria natura (vera onlus o semi-banca?).
E’ un dato di fatto che alcune fondazioni hanno diminuito gli stanziamenti per il territorio per perpetuare la loro partecipazioni nella banche. Così è stato per la Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia, che ha indirizzato pochi anni fa verso l’aumento di capitale di Unicredit alcune risorse che in passato erano state destinate alla valorizzazione del territorio. Senza entrare qui nel merito della scelta (che, in astratto, se redditizia potrebbe nel medio-lungo periodo portare vantaggi alla patrimonializzazione della fondazione) ne esce confermato che le fondazioni, ancor più di altri enti, debbano avere cura della propria immagine, per chi la vede in modo tradizionale, o della propria “identità”, secondo il nostro punto di vista.

Mi troverò a ripetere più di una volta, su questo blog, uno dei concetti essenziali e maggiormente a rischio di confusione: l’identità culturale non “misura” l’impegno di un’impresa nel supportare gli eventi propriamente culturali, come possono essere una mostra o un restauro. Ciò non toglie che tali azioni possano positivamente caratterizzare l’identità dell’impresa, ancor più se si tratta di fondazioni bancarie, per le quali si tratta di un compito quasi obbligato.

La Fondazione perugina ha dato, e dà, ottime prove in questo campo (è in corso, ad esempio, un interessante mostra sui giubilei ad Assisi, è patrocinata una bella riscoperta di Annibale Brugnoli a Perugia) ed è piuttosto presente nei settori educativi e sanitari.

Attualmente però è al centro di una forte contestazione nel territorio perchè vuole ricoprire con il vetro (facendone una sala convegni) Le Logge dei Tiratori, un opificio seicentesco: in parte coperto ma con le ampie aperture che servivano per far circolare l’aria ed asciugare i panni messi a “tirare” ed oggi consentono una suggestiva visuale sugli edifici storici secondo un felicissimo incastro di prospettive. Anche il Presidente della Repubblica, per mezzo della Segreteria Generale del Quirinale e del Consigliere per la Conservazione artistica , ha manifestato il suo appoggio al Comitato per la tutela dei beni architettonici e paesaggistici di Gubbio.

Non è detto che la sopravvivenza dell’arte si iscriva soltanto nella staticità dei monumenti, ma l’intervista rilasciata a La7 dal presidente dalla Fondazione, Carlo Coliacovo suona testualmente agghiacciante: “Si tratta di un contenitore…lo ristrutturiamo e in quel contesto ci facciamo due eventi o tre all’anno…” aggiungendo che i vetri sono vetri, insomma, e a un certo punto si possono pure togliere.

Si può definire “contenitore” un monumento che, pur nel suo attuale degrado, i cittadini riconoscono come un tassello emotivo della loro giornata e della loro memoria? E far passare per un meditato programma di recupero l’odiosa, indistinta, generica definizione di “eventi”? E dequalificare il presunto intervento di qualificazione, ricordandone la naturale provvisorietà (il vetro si può togliere!), come si potrebbe rassicurare un amico a casa del quale si è depositato un pacco ingombrante?

Ne viene fuori una concezione superficiale e proprietaria di spazi che le persone, sul territorio, vivono come pubblici e condivisi. E se questa etichetta si attacca alla Fondazione umbra, ne risulteranno marchiate tutte le altre sue iniziative, delle quali facilmente si supporranno motivazioni opportunistiche.

Può una fondazione permettersi di veicolare una simile identità, così contrastante oltre tutto con l’ipotetica compenetrazione, anche spirituale, con il territorio? Certo che non se lo può permettere: fa a pugno con i suoi fini, e su questa base verrà giudicata. Se poi pensa di poterselo permettere, perchè i fini non sono quelli indicati e l’ente si muove sulla base di altre valutazioni, a un certo punto si accorgerà egualmente, ed amaramente, che non se lo poteva permettere…