Ormai lo sappiamo bene che si mangia anche con gli occhi. E’ praticamente da sempre che il cibo, quanto meno quello aristocratico e borghese, viene celebrato da una messa in scena, più o meno grandiosa. Già nella prima metà del XX secolo le vetrine più scintillanti hanno adottato il cibo e più o meno nello stesso periodo qualche precursore ragionava sul fatto che il packaging potesse essere a sua volta “appetitoso”. La contemporaneità ci consegna oltre 70 milioni di risultati con l’hashtag pornofood (inizialmente usato per fotografare il cibo mentre lo si consuma o cucina per condividerne idealmente l’esperienza, poi variamente abusato). Il fenomeno del visual marketing, consistente nel decorare i cibi in modo creativo, personale e narrativo, senza utilizzare elementi non commestibili, è in costante ascesa. Ne è inventrice, propagandista e imprenditrice un italiana, Rita Loccisano, che propone soluzioni di questo genere
Mangiare con gli occhi, tuttavia, vuol dire mangiare con la mente, e non solo in senso neuroscientifico. Che cosa un produttore di food deve mostrare perché l’immagine risulti intrigante? Come al solito, nella comunicazione aziendale, il “bello” va ricercato in relazione alle aspettative del proprio pubblico.
Le tendenze visive sembrano avere imboccato principalmente tre strade:
- Al posto dello spettacolo dell’abbondanza è subentrato lo spettacolo della salute. Il banchetto pantagruelico, che era il massimo dello splendore gastronomico, cede il passo a un equilibrio misurato, in cui i singoli cibi, anche se accostati, non offrono mai il senso della smisuratezza e dell’eccesso. Se il cibo è molto vi devono essere segni che ne arginano la dirompenza, e sempre un richiamo vegetale, tanto più cromatizzato quanto più deve essere forte il bilanciamento.
- Al posto della stratificazione è subentrato lo snellimento. Questa forma di “purificazione” può essere propria del cibo esposto (ricondotto il più possibile a una dimensione naturale non appesantita) oppure realizzata da ciò che lo contorna: il cestino di vimini per il pane o la tavola non apparecchiata. Per essere precisi il multistrato è assai di moda se intendiamo, nella cucina degli chef, le piccole piramidi verticali di alimenti diversi: ma funziona se è richiamato un ordine rigoroso, una pulizia che lascia fuori ciò che è superfluo, e simbolo ne è l’immancabile minuta goccia laterale (una piccola salsa, l’aceto balsamico) che quasi “chiude” l’inaccessabilità della figura solida. E’ il lascito più significativo della nouvelle cuisine, che mirava a evitare, o quanto meno nascondere, la traccia del condimento sapido. Ed emergono estetiche proprie della tradizione giapponese e di quella del nord-europa, non a caso entrambe in ascesa pure nel design di altri settori.
- Al posto della manipolazione si è imposto il nude look. Come nella cosmesi, il trucco più efficace consiste nel ripristinare una fisionomia il più possibile naturale, insomma apparire struccati, così nel cibo non è raro che il risultato finale di una preparazione consista nel restituirla allo stato antecedente: a prima della cottura, o addirittura al suo aspetto nell’ecosistema di partenza. Così alcune verdure, appena cucinate, vengono immerse in acqua e ghiaccio per riprendere il colore brillante della loro crudità.
Come è facile constatare si tratta di tre tendenze che vanno in qualche modo a convergere. E come sempre, il dominio di un modello culturale, applicato a un settore di consumo, non esclude gli altri ma li costringe a un onere di giustificazione. Chi viaggia fuori dall’opinione (anche visiva) prevalente non ha altra strada che radicalizzare la sua scelta, rivendicarla, e spiegare (dentro o fuori l’esposizione del cibo) quale percorso alternativo sta seguendo. A quel punto può ribaltare il proprio handicap in un punto di forza e provocazione.
Per quelli che aderiscono al modello culturale dominante, come in questo caso le tre tendenze che ho indicato, c’è tuttavia il problema delle distinzione. Quando si viaggia sull’onda di ciò che la gente ama vedere si corre paradossalmente il rischio di incappare nell’occhio pigro, quello che confermato nella sua aspettativa facilmente dimentica e passa oltre.
La soluzione consiste nel colpire più massicciamente l’occhio? No, è nel fare di quell’esposizione visiva una forma di “discorso”: il cibo, una volta che ci ha catturato per quanto è bello, deve parlare, e portarci fuori da sé, nella sua idea di salute, di natura, di benessere, di territorio. “Mhm, che buono…” chi mangia è molto più pronto a dirlo (e condividerlo) dopo questi due passaggi.
Anima in Corporation interpreta il linguaggio del cibo per rendere parlanti le vostre aziende