Sono trascorsi dieci anni dalla legge 248/2006, che ha “aperto” alla pubblicità degli avvocati ma c’è ancora una diffusa riluttanza a percorrere questa strada. Il tema è stato ripreso in questi termini dall’inserto “Affari e finanza di Repubblica” che riportava tuttavia qualche esempio attuativo, per lo più di grandi studi giuslavoristici. In quell’articolo, peraltro, si ometteva di ricordare il punto di svolta più recente: la modifica da parte del Consiglio Nazionale Forense il 22 gennaio 2016 (pubblicata in Gazzetta il 3 maggio) dell’articolo 35 del codice deontologico, consistente nella soppressione dei commi 9 e 10 che limitavano fortemente la pubblicità on line, adesso da considerarsi ammessa anche sui siti web con reindirizzamento e sui social network.

Quando il concetto di pubblicità viene esteso alle professioni permane una certa difficoltà a distinguere la pubblicità dall’informazione, e per anni l’Ordine ha cercato di ergere una barriera allo smottamento del decoro, dichiarando ammissibile la seconda e preclusa la prima. Spesso però i concreti tentativi di tenere la barra dritta sono stati infelici. E’ accaduto così che si giudicasse la pubblicità plausibile in affissione sull’autobus e vietata mediante un banner sul web, o che il consiglio forense avviasse procedimento disciplinare verso un collega che scriveva articoli per un giornale, corredandoli in calce del suo indirizzo (principio che trasmesso al web si concretizzava nel divieto di linkare al sito web professionale il nome a margine di un articolo o di un’intervista). La modifica dell’articolo 35 segna un notevole cambiamento del mood.

Esiste una differenza tra pubblicità e informazione? In linea di principio, dovremmo dire che l’informazione serve al pubblico e la pubblicità al venditore di un servizio. E’ chiaro però che la linea di demarcazione è sottile, perché tutte le informazioni che rendono più facile vendere un servizio sconfinano nella pubblicità. Diciamo pure che è una distinzione piuttosto ingenua. Trascurando dunque l’ipocrisia, la linea di non oltrepassamento sacrosanta è nel controllo sulla veridicità e correttezza delle informazioni, e quella meno oggettivabile è la tutela del decoro e della dignità imposti dalla professione.

Ma il decoro e la dignità, tipicamente condotte valutate sulla scorta di parametri sociali, possono essere affermate “contro” la valutazione sociale? In altre parole, se una forma di pubblicità non viene considerata indecorosa dal pubblico può a questa valutazione sovrapporsi una considerazione di decoro rispondente a un dover essere, visto dall’istituzione?

Il discorso è complesso, e merita di essere più ampiamente trattato in altra occasione. Quel che oggi interessa è notare come anche il pubblico sia in grado di fare una sua valutazione di decoro, e il professionista che si accinge a misurarsi con la pubblicità deve per prima cosa fare i conti con quella. In quest’ottica quasi sempre è sbagliato dire cosa è decoroso e cosa no prima di esaminare il caso concreto.

“Affari e finanza” menzionava un importante studio legale che si è affidato a poderose campagne di affissione addirittura negli aeroporti, con un advertising tradizionale (una campagna visiva con slogan). Una smisuratezza rispetto alla pudicizia del professionista? In astratto sì, ma il punto di atterraggio, lo studio legale in questione, è un insieme di competenze oggettivate da vari riconoscimenti. La stessa campagna, realizzata da uno studio legale che non avesse da vantare alcuna credenziale pubblica, sarebbe risultata ridicola.

Possiamo però dedurne un “classismo” professionale, che impone la gavetta anche per un avvocato che vuole affacciarsi alla pubblicità? Direi che, al contrario, se un’utilità condivisa (da tradizionalisti e modernisti della materia) può avere la pubblicità è quello di democratizzare le opportunità di mettere in luce le proprie attitudini. L’avvocato che aspira ad ottenere riconoscimento pubblico ha, nel vastissimo campo mediatico che gli si è spalancato (e che trova un baluardo nel sito web), la risorsa e l’onere di  lavorare sull’affinamento della sua identità personale/professionale e su contenuti effettivi da proporre al pubblico. Ecco che pubblicità e informazione, di nuovo, si mostrano complementari: stavolta in senso del tutto positivo.

Per inciso, non è esattamente la strada che si sta percorrendo. Ma di questo la prossima volta.

 

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