In Italia l’acronimo RSI (diversamente da quel che significava 70 anni fa…chi non risponde subito ripassi la storia!) sta per Responsabilità Sociale d’Impresa. Rimarrebbe immutato se parlassimo di Ricollocazione Strategica delle Interazioni (dell’impresa). Immutato e altrettanto vero. Devolvere fondi a scopi sociali, infatti, non è solo una scelta etica ma un ottimo investimento. In Italia siamo lenti a misurare le cifre del fenomeno: ed è un peccato perché si potrebbero pesare sia il suo tasso d’incremento sia la redditività nel medio periodo. Altrove sono più puntuali e dettagliati: dopo che qualche mese fa l’osservatorio internazionale di Giving in Numbers aveva mostrato la correlazione tra l’impegno sociale e la crescita delle imprese (quelle che investono socialmente si sviluppano di più), a maggio in Francia sono usciti i risultati commissionati da Admical, che rilevano una crescita della filantropia di circa il 20% in un biennio.

Filantropia, però, è un termine restrittivo: l’impegno sociale non consiste nello staccare un assegno ma nel mettere a disposizione risorse (prodotti, competenze, strumenti di valutazione, personale oltre che fondi) per problemi legati alla salute, all’educazione, all’ambiente alla cultura. Una partecipazione da vero cittadino, a maggior ragione perché buona parte delle cause sociali abbracciate sono legate al territorio (in Francia l’81%).

La responsabilità sociale, in questo periodo, viene identificata essenzialmente con l’adozione di criteri di sostenibilità nella produzione, e quindi focalizzata sull’impatto ambientale dei processi industriali o delle fasi della distribuzione. Viene così messo in secondo piano l’altro volto, quello extra-produttivo. In un caso l’impresa svolge coscientemente il proprio mestiere; nell’altro ammette che il suo mestiere possa non esaurirne la presenza sociale. Entrambi gli atteggiamenti sono fondamentali per creare e consolidare la reputazione.

Se però il percorso della responsabilità sostenibile è parzialmente obbligato e legato a competenze squisitamente tecniche (certo differenti da settore a settore) l’adozione di una causa sociale lascia all’impresa margini creativi più ampi. Come sceglierla? Le variabili sono notevoli e i parametri di condotta contraddittori: se l’iniziativa non ha un rapporto con il territorio ha un basso valore comunitario e una carenza di identità, se ha un vincolo esclusivo con il territorio non è replicabile (il che non giova, per esempio, a un’azienda che punta sull’internazionalizzazione e voglia rodare la sua capacità performante in certe forme di azione sociale); se il campo di intervento coincide chiaramente con quello dell’impresa la sua competenza è più pertinente, se il legame è meno evidente rimane più impresso nella memoria delle persone ed esse percepiscono che il servizio o il bene che l’azienda produce “racconta” il mondo più di quanto si fossero accorti; se l’impresa intraprende un’azione per prima e da sola gode della visibilità di un supereroe, se si accoda all’iniziativa di altri può raggiungere risultati più proficui e rafforzare la sua rete di relazioni. Avanti il prossimo, certo. Ma quale?

 

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