Il concetto di branding è spesso insufficiente a focalizzare i problemi che le aziende hanno sul mercato. E altrettanto sbagliato può essere concentrarsi solo sul bene che si produce invece di spostare l’attenzione sull’identità culturale di un’impresa o del settore cui appartiene. Prendiamo i produttori italiani di riso.

Il riso italiano ha una tradizione notevole nel nostro continente: rappresenta il 50% dell’intera produzione europea. Eppure è un settore in sofferenza, e uno dei pochi che ancora sogna di spingere sul mercato interno oltre che sull’esportazione. Nel 2015 300.000 tonnellate della produzione sono rimaste nei magazzini. La colpa viene addebitata ai prezzi praticati dal riso orientale, e il mese scorso è stato chiesto ufficialmente al governo un riparo da questa concorrenza insostenibile ripristinando i dazi al riso cambogiano.

Il riso italiano, caso unico nel settore alimentare, gode dell’appoggio di un tutore molto particolare: l’Ente Nazionale del Riso. Creato da Mussolini, più o meno congiuntamente all’Iri e agli enti di salvataggio delle banche dopo la crisi del ’29, per supportarlo nella Grande Depressione, l’Ente è il riferimento dei produttori, anche sul piano della comunicazione. Ha svolto questo compito con grande dignità, sia istituzionale (mai sfiorato da scandali) sia professionale (dagli anni Cinquanta ha condotto intelligenti campagne pubblicitarie). L’esistenza dell’Ente, tuttavia, sembra demotivare alcuni produttori alla progettualità strategico-comunicativa. Con limitate eccezioni (su tutte Gallo e Scotti) è difficile imbattersi in un’iniziativa potente di qualche azienda o di un loro consorzio territoriale.

Così, quale mossa difensiva, le aziende si sono accodate all’Ente, individuando nel basso costo del riso cambogiano la causa delle loro difficoltà. In questo modo, però, fanno il gioco del concorrente, implicitamente affermando che i due tipi di riso sono potenzialmente fungibili (pur ovviamente rivendicando la migliore qualità del riso italiano) e che la domanda dell’uno al posto dell’altro è legata esclusivamente al prezzo. Ma sono molto lontani  dal cogliere la sostanza del loro problema.

Quel che è cambiato nelle abitudini dei consumatori non è l’acquisto del riso orientale ma la predisposizione a una cucina internazionale e fusion che ingloba perfettamente il riso orientale (per dirne una, non ci sarebbe seriamente alternativa per chi usa il curry). Ancora più nettamente, la diffusione di uno stile di vita che strizza l’occhio all’orientalismo (a volte di facciata) e che proietta su ogni tassello alimentare l’identità olistica, salutista e rigeneratrice che quella filosofia porta con sé. Anche l’eliminazione dell’opulento e del superfluo rientra in tale filosofia: questo indubbiamente porta ad un apprezzamento del costo più basso, che però è uno degli effetti e non il movente determinante. Del resto, per ciò che il marketing orientalista riesce a far passare come essenziale (si pensi a certi oli per la cura del corpo, ma persino alle candele profumate) le persone rivelano una buona disposizione alla spesa.

Il costo diventa un fattore decisivo solo per quelle popolazioni che non hanno dimestichezza con  il riso e se ne servono come scondito contorno tout court e per le quali, obiettivamente, le caratteristiche specifiche del chicco sono irrilevanti. E’ il caso ad esempio della Francia, dove risulta che la grande maggioranza dei consumatori sono persone di età compresa fra i 35 e i 49, ovvero in genere famiglie con figli a carico e ultra 65enni soli, in cerca di un contorno sfamante e poco costoso. Non è detto che nel confronto con un riso più economico costoro debbano essere considerarsi persi, ma l’unica reazione plausibile è fare “innovazione culturale” sul riso nostrano, sottraendolo dalla sua ghettizzazione di accompagnamento e facendone l’asse portante di pietanze e di stili di vita più coinvolgenti.

Il nucleo della promozione del riso, negli anni, è stata una certa insistenza sul “made in Italy” ma, nonostante il successo del risotto in alcune aree geografiche, il riso è stato cannibalizzato dalla pasta come primo piatto riassuntivo di un’identità nazionale, del tutto impotente di fronte all’armamentario narrativo che la pasta ha sviluppato. Alla fine l’infungibilità del riso italiano è stata dimenticata persino all’Expo, dove il dominio mediatico del basmati ne ha fatto anche l’improbabile ingrediente del risotto. L’Ente Nazionale sta sperimentando con dei piccoli passi una sensibilizzazione del pubblico: nel centro, fino a novembre, gira a Milano un’ape car allestita per degustazioni e spiegazioni. Milano, però, è una delle poche città in cui le virtù del riso sono ben note, e anzi si respira un certo orgoglio campanilistico (rafforzato da un cronico deficit nell’approccio alla cottura della pasta).

L’Ente Nazionale sta anche progettando di allargare le aree geografiche destinate a coltura, probabilmente intravedendo nella forte regionalizzazione produttiva un elemento di debolezza. Ma nella storia industriale del nostro paese la vocazione “distrettuale” (sia pure specialmente in chiave di esportazione) è stata spesso una carta vincente.

La zona risicola per eccellenza è il vercellese. Non è un paesaggio facile né del quale è stata tramandata buona memoria, tra le paludi, le zanzare e la fatica delle mondine. Eppure in certe ore e stagioni lo sguardo sulle risaie coglie un suo struggente lirismo. D’altronde, nella motivazione Unesco all’inclusione delle Langhe nel Patrimonio dell’Umanità, il fulcro è proprio la trasformazione che il lavoro umano opera sull’ambiente impiantando la “cultura del vino” in un delicato equilibrio tra il corpo, la tecnologia e gli agenti naturali.

Per il riso invece, il segno del territorio e la sua affascinante coloritura storica non sono mai stati seriamente valorizzati dentro una campagna di riconoscimento identitario, del prodotto come di un’azienda.

Peraltro, anche se appartiene a un’area circoscritta, il riso unisce l’Italia più di quanto possa sembrare. Una promozione degli arancini siciliani (meglio: una promozione di alcuni oggetti culturalmente significativi della Sicilia che comprenda gli arancini) è anche una promozione del riso italiano, perché quel sapore non sarebbe pensabile con nessun altro riso (all’Expo almeno gli arancini con riso basmati non li hanno cucinati).

Il riso italiano si compone di molte varietà, e le persone non sanno distinguere che fra due o tre (peraltro sempre le stesse – Arborio, Carnaroli): il trend dell’approfondimento gustativo non è stato ancora esplorato. Del riso nessuno ha mai contestato le virtù salutari e la propensione biologica, ma nei discorsi sul benessere c’è sempre qualche alimento che lo oscura. Le forme di responsabilità sociale specificamente declinate sul riso, e che siano capaci di colpire la percezione del pubblico, sono ancora poche e poco incisive.

Più in generale, il riso non è stato sin qui capace di suscitare discorsi tra le persone che eccedano la dimensione strettamente alimentare, come da decenni invece è riuscita a fare la pasta. Il “made in Italy” del riso rimane tra i due estremi del parassitismo verbale e l’etichetta apprezzabile solo dagli intenditori. L’inserimento del riso in uno stile di vita occidentale o l’evocazione del riso attraverso argomenti più estesi sono una pagina bianca, o poco più.

Anche la riluttanza dei produttori a presentare come nettamente differenziato il proprio “riso” rispetto a quello dei concorrenti ha prodotto (a fronte di quanto avviene per la pasta) una certa disattenzione dei consumatori alla distinzione.

Come sempre, in questi casi quella che a prima vista appare come una brutta notizia (ovvero che le aziende del riso non sfruttano in alcun modo, ai fini del business, il potenziale dell’identità culturale) può essere letta come una buona notizia: la partita sui mercati è ancora tutta da giocare, mettendo in campo quella latente e potente identità.

 

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