Magari non tutti ne condividono l’operato, e parecchi probabilmente lo invidiano: certo, la singolarità del personaggio è innegabile. Marc Bonnant è un avvocato penalista ginevrino, e ci sono parecchie cose per cui è famoso. E’ soprannominato il “Bousset dei tribunali” per la purezza della sua eloquenza. Le Monde riconosce che nel mondo giuridico francofono nessuno come lui può uscire vincitore da una tenzone dialettica con i filosofi Levy e Debray. E’ stato insignito della Legione d’Onore per la difesa della lingua francese. Recita nei teatri d’Europa piece che replicano i processi storici. Siccome ama spaziare rispetto alla materia penale, si è occupato del divorzio del miliardario russo Rybovlev, patron della squadra calcistica del Monaco, incassando dodici milioni di franchi. Poco meno di quelli che parcellò alla famiglia Agnelli per un patto successorio.

Con lo scandalo Panama Papers ha messo a segno un altro colpo da primato: egli risulta infatti direttore di almeno 176 società offshore, con diversi beneficiari effettivi ricercati dall’Interpol o dalla giustizia di qualche paese. Niente di sorprendente, essendo già noto che Bonnant accetta di “scudare”i clienti (è stato ad esempio azionista unico di Warwick per proteggere dal sequestro il patrimonio del faccendiere franco-libanese Takieddine) e dichiara esplicitamente che “anche i mandati offshore sono spesso il prolungamento e la consacrazione del rapporto di fiducia nato dalla difesa penale, civile o amministrativa dei clienti”.

Le Monde ironizza sulla caduta prosaica del linguaggio nelle carte panamensi dove “si tratta in qualche riga di modificare gli amministratori, di regolare le spese di gestione o di cambiare il domicilio di una società”.

Perché richiamare il caso in questo blog? Non per derivarne un discorso articolato ma per gettare qualche piccolo sasso nello stagno della riflessione sul rapporto tra mondo delle imprese e mondo professionale, e sul comprensibile disagio di quest’ultimo nell’appiattirsi sui canoni, strategici e comunicativi, del primo.

Sito web di Bonnant? Sobrio, una sua foto, nome e cognome dei collaboratori, contatti. Nessuno potrebbe contestare una mancanza di decoro. A certi livelli non è davvero l’autopromozione che mette in moto il passaparola.

Attività di Bonant? Lui stesso spiega, in un’intervista: “non offro servizi, sarebbe una deriva commerciale. Sono consultato, che non è certo la stessa cosa”. Encomiabile secondo i rigoristi: un professionista, dicono, non si abbassa a vendere servizi.

Cosa accadrebbe se si trattasse di un’impresa? La sottrazione di risorse fiscali agli stati, sorvolando sugli aspetti penali (che se ci fossero toccherebbero anche un avvocato), metterebbe l’impresa in pessima luce dal punto di vista della responsabilità sociale e a serio rischio di boicottaggio. Questo, ovviamente, non accade nella consulenza legale, per la quale, in nome di sacrosanti principi democratici, ciascuno ha diritto di essere assistito nelle sue faccende. La linea di demarcazione tra professione e impresa, insomma, è ben salvaguardata.

Potremmo insomma definire Bonnant uno che opera all’antica. Che, purtroppo, non significa sempre e solo nel rispetto dei valori ma anche con quell’abile ipocrisia, mistificazione verbale e capacità di tessere relazioni che ha costituito e costituisce un asse portante del successo professionale (in un come Bonnant, di sicuro, abbinata anche all’intelligenza e alla cultura: anzi, è un ottima prova che queste qualità servono! Non invece del fatto che siano usate sempre a pro della collettività).

Questo solo per dire: professioni e impresa, il solo accostamento è apocalittico? Diffidate delle semplificazioni.