Quando si parla di identità aziendale ci si concentra soprattutto sull’organizzazione, le caratteristiche produttive e l’immaginario: tra le grandi imprese l’identità viene spesso fatta completamente coincidere (ed è un errore concettuale) con la brand identity. Si tende invece a trascurare la condivisione di questa identità con i dipendenti. E questo non è solo un errore concettuale, ma un’ingenuità che rischia di dissolvere, anche all’esterno, il profilo che l’azienda intende offrire di sé.

Naturalmente, ogni impresa si preoccupa di dare direttive comportamentali ai dipendenti: se debbano indossare o meno una divisa (un’importante corporation esige che i suoi lavoratori rispettino un dress code persino quando rispondono al telefono), dare del tu o del lei al cliente, quali aspetti di un prodotto debbano valorizzare nella comunicazione. Ma prese da sole tutte queste indicazioni non sono altro che un’appendice della formazione commerciale, il più delle volte inquadrata in un atteggiamento strategico riconducibile al marketing di prodotto, del tutto insufficiente a dar conto .

Piuttosto diffuso nell’imprenditoria è pure un certo riserbo nei confronti dei dipendenti, immaginando che il modo più significativo per galvanizzarli (a parte gli incentivi economici) sia usarli come “test” del messaggio che l’impresa vuol far passare all’esterno. Insomma di trattarli alla stregua di pre-compratori, sottoposti ai medesimi criteri di persuasione.

 

Il risultato finale è che ai dipendenti rimangono spesso oscuri, almeno in profondità, i valori che l’impresa ritiene di veicolare. Questo non solo genera un coinvolgimento ridotto e una minore integrazione, ma rende l’esecuzione delle direttive comportamentali difettosa non appena i casi concreti, come spesso accade, fuoriescono dalla standardizzazione (quante volte semplicemente nell’interazione con un call center comprendiamo che la nostra richiesta non è esattamente rispondente allo standard, e per questo rimaniamo insoddisfatti della risposta!): il dipendente, infatti, o seguirà in modo inopportunamente meccanico il protocollo o ragionerà secondo il suo modo di vedere le cose, senza soppesare il modo di vedere dell’impresa. Semplicemente perché non sa veramente qual è.

 

Nel mese di luglio abbiamo effettuato un piccolo test con quattro aziende, profondamente diverse nella struttura e nella dimensione: si andava dall’esercizio commerciale con pochissimi dipendenti alla PMI con oltre cinquanta dipendenti. Il test (che rientra nell’analisi identitaria e ha punti solo parziali di contatto con analoghe indagini volte a far emergere una value proposition) comprendeva tre fasi: in una prima fase veniva chiesto ai dipendenti e alla proprietà (o una sua rappresentanza amministrativa di alto livello) di compilare un distinto questionario. Benchè le domande fossero poste in modo diverso, i questionari miravano allo stesso obiettivo, cioè la focalizzazione su domande che reputo essenziali come “In cosa crede l’azienda” o “Cosa sogna?” (che ovviamente vanno rese concrete secondo la specifica esperienza per non generare risposte inutilmente vacue). Più precisamente, però, nel caso della proprietà, l’intento era rivolto a conoscere cosa essa creda che i dipendenti credano a proposito di quello in cui crede l’azienda. A questa prima fase seguiva un dibattito tra i dipendenti, condotto da un mediatore/facilitatore con la partecipazione limitata di un rappresentante della proprietà, per sviluppare alcune domande poste nel questionario e pervenire a una conclusione di gruppo su alcune risposte.

I risultati hanno suscitato un certo stupore negli ambienti coinvolti, e presentano ciascuno una certa prossimità alla  media nonostante la grande differenza di dimensioni delle aziende: non solo  oltre il 60% delle risposte dei dipendenti non coincideva con quelle della proprietà (per la parte di domande comuni) ma soprattutto il 55% delle aspettative della proprietà circa le risposte dei dipendenti si rivelava sbagliato. Un terzo questionario, svolto dai dipendenti, dopo la discussione ha migliorato la loro percezione condivisa del 30% rispetto alla situazione precedente. Insomma è bastata una situazione da test, inevitabilmente ristretta nei tempi e nell’estensione, per produrre un effetto che l’esperienza quotidiana sul lavoro (evidentemente viziata in partenza) non aveva la capacità di realizzare…

Beninteso, quando i dipendenti percepiscono diversamente l’identità dell’impresa diversamente dal CEO o dal proprietario non è detto che sia colpa dei loro pregiudizi. Potrebbe anche darsi che sia la loro percezione a raffigurare esattamente l’identità, che invece l’imprenditore fraintende o sbaglia a comunicare. La percezione del dipendente sarà quindi essenziale per correggere il tiro: non in qualità di consumatore sondato in casa bensì come partecipante alla formazione dell’identità aziendale.

 

Il numero estivo dell’Harvard Business Review, giustamente, tuonava contro le riunioni: se ne fanno troppe, non fate perdere tempo ai dipendenti, date loro lo spazio mentale per pensare con la propria testa! A questa critica, però, va aggiunta quella, di segno opposto: quasi mai vengono organizzate riunioni (anche a più livelli, per gradi di decentramento) al fine di  condividere attivamente con le risorse umane l’identità dell’impresa e i suoi profili. Con una simile lacuna pensare di trasmettere correttamente la propria identità attraverso i dipendenti è un’utopia.

 

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