“La nostra non è soltanto un’azienda olearia. E’ un’azienda olistica”. Avete mai sentito questa dichiarazione? Probabilmente no, perché non mi risulta che nessuno l’abbia mai fatta. Ed è un peccato, non solo perché sarebbe un messaggio pubblicitario accattivante che si aggancia pure a un aggettivo modaiolo, ma anche perché ben metterebbe in luce la natura più profonda dell’olio. Un alimento, al contrario, il cui scarno marketing fatica a diffondere le proprietà emergenti (secondo la teoria olistica il tutto è più della somma delle sue parti, e le qualità di un sistema che eccedono le sue parti si definiscono proprietà emergenti) e pure le sue prerogative di base. Siamo al paradosso che, nel momento di esplosione del food, rimane ancora ai margini l’ingrediente che, senza platealità, contribuisce in modo determinante a connotare il gusto e l’equilibrio salutistico delle pietanze. A fronte della qualità sopraffina dell’EVO (olio extravergine di oliva) made in Italy, probabilmente la migliore al mondo, la consapevolezza del consumatore è ancora inadeguata. Basti dire che nel 2016 la quota di mercato interno degli oli Dop, gli unici di cui è possibile ripercorrere la tracciabilità, costituiva soltanto il 2%. Ma al consumatore chi dovrebbe spiegarlo?

Alcuni cibi o bevande, partendo da un’apparente povertà espressiva, sono stati capaci di introdurre codici comunicativi di grande successo. Già in altre occasioni ho ricordato quale concentrato creativo sia stato il mercato delle acque minerali. La vicenda è stata ben riassunta in un volume di Laura Rolle, che ha ricordato come, all’interno di un quadrato semiotico, si potessero distinguere acque del fare (divise in acque funzionali e acque distintive) e acque dell’essere (divise in acque autentiche ed acque euforiche). Quell’arricchimento di significato alcune acque lo esprimevano brillantemente con il packaging. In un certo senso la difficoltà di differenziazione del prodotto ha aguzzato l’ingegno dell’area comunicativa. Altri prodotti, carichi di significato evidente senza nessuna forzatura, si sono adagiati su questa dotazione di partenza: non ho mai visto, ad esempio, un’analoga operazione comunicativa per un vino. E l’olio? Di oli del fare e dell’essere (o dell’agire e dello star fermi, o del ritirarsi e del cercare…) non ho mai intravisto nulla. Alcuni oli, questo sì, hanno cominciato a percorrere la strada della ricerca sul packaging. Percorso intelligente ma riduttivo. A differenza di un’acqua minerale (che al massimo può godere di un suo peculiare storytelling) l’olio possiede una varietà di storia, significati, sollecitazioni sensoriali e proprietà narrabili inversamente proporzionale alla sua “umiltà” di condimento.

Qualche volta gli innovatori hanno il torto di avere un’idea troppo in anticipo sui tempi. Ricordo un ristoratore torinese che, oltre vent’anni fa, proponeva una degustazione di tredici pesci crudi affettati scenicamente davanti al commensale, conditi da altrettanti diversi e selezionatissimi oli. Noi sciocchi che guardiamo il dito di chi ci indica la luna, ci concentravamo in effetti sul pesce (il dito, in quel caso) invece che sulla luna (l’olio, il vero cerimoniere dell’esperienza).

Che gli oli possano essere degustati, e che i frantoi meritino una visita al pari delle cantine sono principi  che cominciano a diffondersi. Ma troppo timidamente, da parte dei produttori, e senza un corredo comunicativo appropriato (teniamo presente che l’esperienza è più ostica di quella realizzata con un calice di vino).

Ma i campi di esplorazione sono molteplici. Quante imprese olearie stanno dando spazio alla responsabilità sociale? Al contrario, gli organi d’informazione hanno diffuso notizie sulle prassi poco commendevoli di spacciare come italiano olio importato, che hanno macchiato la credibilità dell’intero settore. Ma quanto spazio, anche comunicativo, avrebbero le aziende serie e attrezzate per rassicurarlo, e contemporaneamente differenziarsi in funzione della caratteristiche organolettiche del loro olio e dell’esclusività del tipo spremuto! (in verità diverse grandi aziende potrebbero anche ribaltare il tema, perché il blend tra olive diverse richiede a sua volta una perizia particolare).

In realtà l’olio ha legami importanti con la salute e la cultura che mettono a disposizione dei produttori un invidiabile pacchetto di argomenti da toccare. Dell’olio extravergine d’oliva sappiamo ormai che disattiva i geni responsabili di molte infiammazioni dei vasi sanguigni che causano malattie cardiache e che i suoi polifenoli producono effetti dietetici miracolosi. La mitologia greca lo considerava uno dei due doni di Atena agli uomini (l’altro era la democrazia). In tutti e tre i monoteismi è considerato sacro, incorrotto e splendente (tanto che nelle tradizioni popolari europee si riteneva che per trovare i tesori nascosti nella terra bisognasse intingere in olio purissimo il dito di un bambino). Alla base della sua potenza metaforica vi sono le sue caratteristiche fisiche, la sua attitudine connettiva e lubrificante. Un intero arsenale comunicativo nella mani di un settore produttivo che, nel suo insieme, è incredibilmente timido. Se poi arriviamo in piena contemporaneità, dobbiamo ricordare come nella cosmesi e nella cura del corpo l’olio svolga un ruolo primario. I produttori si trovano a due passi persino la più immediata delle brand extension (e pochi ne hanno approfittato).

Anche chi riesce a trasmettere le generiche virtù dell’olio, di rado arriva a differenziare il proprio rispetto ai competitor. A disposizione delle aziende, vista l’amplia gamma di discorsi sociali che possono trovare il fulcro nell’olio, ci sarebbero gli strumenti più sofisticati della comunicazione, a cominciare dal brand journalism. Le imprese più grandi hanno colto la necessità di un cambio di passo negli investimenti in comunicazione: la Bertolli sta appena procedendo a un rilancio in grande stile (ancorchè molto incentrato sul packaging: che è molto, ma come dicevamo non è tutto) e scorrendo il sito di Carli si coglie una notevole abilità a individuare i profili sensibili per il pubblico. L’arena però è ancora quasi deserta. Rimane spazio, anche per i produttori medio piccoli o decisamente piccoli (molti dei quali addirittura non affacciatisi praticamente alle risorse, quanto meno, della comunicazione digitale), per “spremere” finalmente dal prezioso ulivo  qualche goccia di meritata notorietà.

Post scriptum. Segnalo una felice isola di creatività nella pubblicità dell’Associazione Italiana di Sommelier dell’olio. Datele un occhio.

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