Cosa penserebbe il cliente di un principe del foro se ne intercettasse le foto su Facebook mentre salta sulle liane in costume adamitico? E quello del chirurgo che lo vede vestito da Arlecchino? Sino a poco tempo fa la sintesi del rapporto tra professionisti e social era : cautela quando esponete la vostra vita privata. Oggi, fermo restando che non è mai consigliabile una sbavatura pesante rispetto all’immagine pubblica, il tema è diventato: può un professionista usare Facebook per promuoversi, magari con una pagina dello studio e inserzioni mirate? Detto che giuridicamente questa possibilità appare ormai incontestabile, esaminiamola sotto il profilo dell’opportunità comunicativa.

Facebook, con il passare degli anni, ha sicuramente ampliato le sue funzionalità. Per alcuni rappresenta addirittura il filtro principale di accesso al mondo. Al tempo stesso, nello spirito dell’uso, rimane essenzialmente legate al tempo libero e alla leggerezza. Ci sono una serie di cose che non c’entrano con FB: non ci si va per scegliere il consulente del lavoro, non per fare acquisti, non per leggere testi lunghi.

Nel mentre FB è diventato un gigante della raccolta pubblicitaria. A lungo si è pensato, ingiustamente, che andasse bene solo per i grandi brand. A lungo le aziende hanno inseguito obiettivi inutili, come ottenere il massimo numero di like sulla pagina. Una parte del successo di FB nell’advertising è una bolla, una parte no. La profilazione della clientela è la più esatta ma non rende allo stesso modo in tutti i settori. Non voglio oggi entrare nel merito di ragionamenti che meriterebbero ciascuno diversi distinguo ma voglio buttare lì, attraverso un esempio, una prima risposta all’interrogativo che ho sollevato.

 

Due settimane fa ero relatore a un convegno su “Internet e professionisti”, in coda al quale parlava un commercialista per raccontare la sua esperienza diretta. Ho trovato la sua testimonianza molto convincente, e dal mio punto di vita si è mosso con grande abilità.

Cosa fa nella sua pagina? Non propone preventivi gratuiti né scrive quanto è bravo.  Ha intitolato la pagina con il suo nome e la qualifica “difensore fiscale” e stagliato su un rosso pompeiano la scritta “la difesa dei diritti fiscali”. In questa pagina posta video di tre minuti, messi in circolazione con molta continuità, dove espone un caso pratico, alla portata della massaia (o della parrucchiera: ne ho visto uno dedicato a una questione di scontrino fiscale per autoconsumo dal coiffeur) e spiega come ci si deve comportare. Punto.

Questa è una strategia adattissima a Facebook, non solo perché fa quel che per le aziende si chiama branding e pratica anche native advertising (mi scuseranno i professionisti che leggono se rinviamo ad altra occasione anche l’approfondimento di queste espressioni).

E’ adattissima perché è in linea con il mood di Facebook. Il video è breve, con semplice montaggio alternato, tocca toni scherzosi. Non tutti i temi (pensiamo a un avvocato minorilista) si presterebbero.

Ed è adatta perché strizza l’occhio a una posizione sulla quale è facile trovare consenso: che le imposte siano qualcosa da cui bisogna difendersi. Su Facebook non possiamo mai pensare di convincere qualcuno a cambiare idea. I messaggi che funzionano sono quelli che non sfidano la dissonanza cognitiva: cioè che dicono esattamente quello che chi legge vuole sentirsi dire. Se informano pure, poi, sono impareggiabili. Il commercialista ha visto che (stranamente) questo spazio era vuoto e l’ha intelligentemente occupato, secondo le regole del medium.

Ovviamente mandare video di questo tipo su Facebook, anche se uno pagasse per aumentare le visualizzazioni,  ha un significato completamente diverso dalla pubblicità su Google. Su Google siamo nell’inbound marketing: digito “tributarista che difende i cittadini dallo stato” ed appaiono riferimenti professionali, alcuni perchè pagato la pubblicità e altri perchè hanno dei buoni contenuti (o almeno hanno fatto credere all’algoritmo di averli). Inbound marketing: la pubblicità viene fuori nel momento del mio bisogno. A dimostrazione però del fatto che l’outbound marketing (come quello della tv: guardo la pubblicità quando non sono nella fase del bisogno) non è superato, eccolo che rivive su Facebook. Le persone incappano nei video, cominciano a seguirli, il professionista accresce la sua reputazione e quando capiterà la necessità gli spettatori (tali sono) forse si ricorderanno del difensore tributario. Sicuro? Certo che no.  E’ possibile. Chi vende sicurezze, in questo campo, vende fumo.

Al termine dell’intervento qualcuno dalla platea ha chiesto al commercialista: quanto tempo ci vuole per vedere i risultati? La risposta è stata esemplare: non lo so, ho cominciato da poco, ma in ogni caso è una cosa che mi diverte e mi gratifica fare.

Ecco la chiave giusta.

Tra tutti, si tratta del motivo decisivo per concludere che è stata una buona iniziativa. Il commercialista ha espresso la sua personalità e, di riflesso, la sua identità professionale. Se riceverà anche un risultato economico sarà dipeso soprattutto da questo.

 

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