A MARGINE DI UN’INDAGINE DELL’HARVARD BUSINESS REVIEW. UNA PROPOSTA D’AZIONE.

 

Siete certi che i vostri dipendenti e gli stretti collaboratori comprendano e condividano la cultura che guida la vostra azienda? Per noi di Anima Corporation, che abbiamo coniato il concetto di identità culturale come importante fattore di successo dell’azienda, è un piacere che l’Harvard Business Review di inizio 2018 intitoli la sua apertura “Il fattore cultura” e suggerisca alle aziende di rispondere alla domanda che ho indicato all’inizio. Più precisamente, però, l’indagine di Boris Groysberg e dei suoi tre colleghi (svolta sul campo, con 230 aziende) si occupa della cosiddetta cultura organizzativa. Siccome identificare l’identità culturale di un impresa attraverso questo concetto rischia di creare confusione, ci occuperemo brevemente in quest’articolo (adatto a organizzazioni di ogni dimensione) di fissare significato e limiti di tale nozione per poi suggerire un metodo concreto di azione da parte dell’impresa.

 

Il focus dell’indagine di HBR è spingere gli imprenditori e i manager a valutare se l’impresa che dirigono è a bassa convergenza (i dipendenti non sono quasi mai d’accordo con la leadership sulle caratteristiche culturali dell’azienda: non le comprendono o non le approvano) oppure ad alta convergenza (le opinioni dei dipendenti sulle caratteristiche culturali dell’azienda sono allineate con quelle della leadership). Il punto d’arrivo è che una cultura forte, coerente, internamente diffusa e condivisa sia una chiave essenziale del business d’impresa.

 

Nell’indagine la cultura viene definita come l’ordine sociale tacito di un’organizzazione, che influenza atteggiamenti e comportamenti con modalità estensive e durature. “Le norme culturali definiscono ciò che viene incoraggiato, scoraggiato, accettato o rifiutato all’interno di un gruppo. Quando è pienamente allineata ai valori, alle motivazioni e ai bisogni delle persone, la cultura può liberare una grandissima energia in direzione di una finalità condivisa e promuovere la capacità di successo di un’organizzazione”.

 

Tuttavia, l’identità culturale di un’organizzazione non è, a mio parere, l’insieme di queste regole implicite interne all’organizzazione ma il modo in cui l’organizzazione si colloca all’interno di uno sfondo più ampio. Mi spiego con un esempio: il valente studioso Diego Gambetta, molti anni fa, propose uno studio della mafia inquadrandola come se si trattasse di un’impresa (quindi, per quanto apparentemente paradossale, non è un esempio che ci allontana dal nostro ambito). Se dovessimo definire la mafia secondo le sue regole interne non c’è dubbio che la classificheremmo (per rimanere dentro gli otto stili culturali considerati dall’HBR, che menzionerò tra poco) come un’organizzazione connotata dalla cultura della solidarietà, per come i suoi membri sono tenuti a sostenersi l’un l’altro e proteggersi attraverso l’omertà. Difficilmente però potremmo sostenere che l’identità culturale della mafia coincide con la solidarietà. Quella è una regola interna di funzionamento ma non il modo in cui la mafia concilia i suoi obiettivi e “valori” con quelli della più ampia organizzazione sociale che la contiene (lo stato).

 

Ho sempre ritenuto che sia preferibile non abusare della parola cultura nella modalità impiegata dall’HBR (e dagli studiosi della materia), preferendo il termine più trasparente di “organizzazione” e lasciando alla cultura il compito di qualificare alcuni profili più ampi del modo di agire e pensare dell’impresa. Che a ragionare diversamente possa generarsi confusione lo dimostra una tabella, parte dell’indagine che stiamo commentando, nella quale si riportano dichiarazioni di otto leader d’impresa “che possono essere importanti per fornire indicazioni su come vedono e come gestiscono la cultura delle loro organizzazioni”. Ren Zhengfei, il CEO di Huawei dice: “Nella nostra azienda siamo lupi. Nella battaglia con i leoni, i lupi si destreggiano alla grande. Con un forte desiderio di vincere e nessuna paura di perdere logorano i leoni in tutti i modi possibili”. E’ evidente, in effetti, che queste parole descrivano, con qualche eccesso enfatico e una certa approssimazione nella parabola, quale dovrebbe essere lo stile organizzativo della Huawei (improntato all’autorità). Ma sentiamo cosa dice Elon Musk, il cofondatore e Ceo di Tesla: “Sono interessato a cose che cambiano il mondo e alle nuove tecnologie che dicono: come è potuto accadere?”.  Questa dichiarazione è rivolta al mondo (vedete così il mondo, per come cercherà di renderlo la mia azienda) non ai dipendenti: rientra a pieno titolo in quella che io definisco identità culturale. E adesso Inga Beale, CEO dei Lloyds di Londra: “Per proteggersi le aziende dovrebbero cercare di capire a quali minacce specifiche potrebbero essere esposte e parlare con degli esperti che possano aiutarle”. Ma questa è una dichiarazione rivolta ai clienti! Non c’entra nulla con la cultura organizzativa.

Cerchiamo allora, per indicare cosa serva a un’impresa, di procedere con chiarezza. Un’impresa ha bisogno di due cose distinte: che i dipendenti abbiano chiara la sua identità culturale, cioè il modo in cui si colloca nel mondo. E, cosa distinta ma altrettanto essenziale, ha bisogno che i dipendenti comprendano e condividano le regole organizzative che la guidano: non quelle scritte ma quelle tacite, che sono le più propulsive.

Per quanto concerne questo secondo aspetto, lo studio dell’HBR riassume otto stili organizzativi (usiamo dunque questa formula invece di stili culturali) principali: solidarietà, finalità, apprendimento, piacevolezza, risultati, autorità, sicurezza, ordine. Chi lavora in un’azienda si domanda che cosa si attendono da lui i capi. Che sperimenti? Che agisca in autonomia? Che porti a casa dei risultati, senza stare a rompere con lo stress? Che consideri la gestione dei rischi? Naturalmente il confine tra interno ed esterno è sottile, e queste regole organizzative si traducono nel modo in cui i dipendenti agiranno verso gli stakeholder.

In alcuni casi potrebbe sembrare facile. Basta che il leader si esprima con chiarezza, Peccato che a volte il leader trasmetta un messaggio che è poi opposto al modo in cui vorrebbe funzionasse profondamente l’organizzazione. Oppure accade che le convinzioni intime dei dipendenti lo distorcano. Oppure che lo stile organizzativo faccia a pugni con l’identità culturale che l’azienda bramerebbe possedere. E’ per questo che l’indagine di cui stiamo parlando riscontra una discreta frequenza di imprese a “bassa convergenza”. E quindi un grave (e non sempre avvertito) problema per l’impresa.

 

La verità è che concetti come “autorità” o “sicurezza” rimangono nebulosi proprio perché sono espressioni che vengono lette secondo i codici culturali di ciascuno. E’ qui insomma che entra in gioco la cultura.

Cosa serve allora all’azienda? Non solo capire se il suo stile organizzativo è improntato alla solidarietà o ai risultati ma anche misurare quanta distanza ci sia nel modo di definire l’uno o l’altro concetto nelle persone che la compongono, e quindi se sussista sotto questo profilo uno scollamento serio tra la leadership e i dipendenti. Per arrivare a una definizione condivisa di queste parole all’interno dell’azienda è necessario preliminarmente comprendere con quale significato vengano percepite in termini assoluti.

 

L’obiettivo può essere raggiunto con questionari a domande chiuse, seguiti da gruppi di discussione, il tutto organizzato in modo da ridurre l’effetto suggestionante della leadership (non servirebbero a nulla risposte intimamente non veritiere ma conformi a quanto la leadership vorrebbe sentirsi rispondere) e in maniera da collocare le parole, dapprima, in un orizzonte di significato e valori diverso da quello aziendale per poi successivamente ricondurle nell’ambito della sua organizzazione. Un’operazione di mediazione culturale che potrebbe rivelare, e poi risolvere, profondi corti circuiti comunicativi che frenano l’organizzazione e l’efficienza dell’azienda. E che potrebbe utilmente essere impiegata, in sede di assunzione, per individuare le persone più adatte a integrarsi felicemente nell’impresa.

 

Anima in Corporation propone giornate formative volte a indagare la corrispondenza culturale tra lo stile organizzativo delle aziende e la percezione che ne hanno le sue risorse umane, e a migliorarla.

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