Tra pochi mesi, quando redigeranno il bilancio di esercizio, le aziende italiane quotate in borsa dovranno occuparsi anche di pubblicare una “dichiarazione di carattere non finanziario” sulle politiche messe in atto rispetto a temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva. Una rendicontazione effettiva, e non un libro dei sogni, tant’è vero che la dichiarazione, controllata da un revisore esterno, potrà far scattare sanzioni in caso di falsità.

E’ il recepimento di una direttiva europea e il segno che la RSI è ormai una realtà con cui le imprese tutte devono confrontarsi: le quotate sono solo in prima fila. In effetti, gli ultimi dati disponibili in Italia attestano investimenti in responsabilità sociale oltre il miliardo di euro, con un  coinvolgimento dell’80% delle aziende. E tuttavia, nella graduatoria dell’autorevolissimo Etisphere Institute, tra le 135 aziende appena  inserite nell’elenco dell’eccellenza in materia di CSR una sola batte bandiera tricolore ed è Illy Caffè (per la sesta volta consecutiva). E’ un indicatore della relativa lentezza con cui l’imprenditoria italiana percorre la strada della RSI.

Fatte salve alcune eccezioni, soprattutto se si guarda alle PMI anche di medie dimensioni, la responsabilità sociale è vissuta essenzialmente sotto il profilo della compliance. Le best practices delle imprese, in sostanza, si riducono all’adozione degli standard normativi.

Ma la CRS non è affatto una mera questione amministrativa, e neppure è confinata al pur rilevante impegno nella sostenibilità. Essa è un elemento strategico e di concorrenza.

Competere sulla finalità sociale è una delle forme che assume la concorrenza d’impresa.

Nei casi più felici la RSI viene inglobata nella produzione (come nel caso di Patagonia) o nei suoi aspetti laterali ( si pensi al non-packaging di Lush). Altre volte si origina dallo scambio di mercato (TOMS che regala un paio di scarpe a persone bisognose per ogni paio di scarpa vendute).

Come ogni forma di competizione d’impresa, la RSI richiede differenziazione. Questo obiettivo viene raggiunto più facilmente quando la RSI punta al cambiamento di una condotta dei consumatori o si propone attivamente quale innovazione (ebbene sì, si dovrebbe parlare di innovazione anche nel campo della responsabilità sociale!) nella condotta dell’impresa. Non sempre però è possibile, specialmente quando l’azienda non possiede già una sua autorevolezza.

L’alternativa rimane dunque quella di rispondere alle aspettative dei consumatori. Ma come abbiamo detto, da sola è una scelta debole perché in contrasto con la differenziazione.

Per supportarla ci sono tre possibilità:

  • Amplificare. L’impresa deve comunicare la sua condotta sociale collocandola su uno sfondo più ampio che ne dimostri tutta l’importanza. Come ha scritto efficacemente il manager di Coca Cola, Sundar Bharadadwaj, “i brand manager devono capire la gamma di associazioni cognitive che i diversi segmenti di clientela potrebbero attribuire alla funzione sociale di un marchio”. Il brand journalism può essere un ottimo modo di chiarire il contesto che illumina una condotta socialmente responsabile e la rende credibile.
  • Personalizzare. L’impresa deve dimostrare che, benché apparentemente uguale a quella degli altri concorrenti, la sua condotta sociale ha caratteristiche esclusive. A questo risultato si può pervenire rendendo la condotta misurabile e comparabile (come ha fatto ad esempio la Barilla con le sue politiche di diversità e inclusione) oppure raccontando come l’impresa la adatti alle sue precipue caratteristiche (ad esempio con un codice etico personalizzato) e a degli obiettivi legati a bisogni specifici di un territorio o di una categoria di persone.
  • Sceneggiare. Anche la condotta sociale si giova di una cornice visuale, di una campagna pubblicitaria, di una comunicazione social dedicata e dell’engagement. E anche di azioni simboliche: a cosa serve un report di sostenibilità se riempie il mondo di altra carta? Ecco che Virgin Media ha deciso di non stamparlo più ma di diffonderlo mediante infografiche, video e contenuti per i social media. Qui siamo al raddoppio: la comunicazione si occupa non solo di quel che c’è scritto dentro il bilancio sociale ma pure del fatto che esista un bilancio sociale.

In altre parole, sul piano comunicativo le aziende dovrebbero avere per la responsabilità sociale la stessa cura che riservano ai prodotti. Su questo c’è ancora molto lavoro creativo da spendere.

Anima in Corporation per amplificare, personalizzare, sceneggiare le condotta socialmente responsabili delle imprese. Contattaci per ulteriori informazioni.

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