Food

Il Salone del Gusto di Torino è stato un successo sensazionale, ennesima consacrazione dell’ormai irresistibile Petrini (del resto, dopo avere introdotto persino l’Enciclica del Papa…) e della sua creatura Slow Food. Anche dell’ideologia Slow Food, si dovrebbe dire. Solo che tanto più Slow Food allarga il suo dominio culturale sul mondo gastronomico, tanto più diventa difficile riconoscergli un’identità precisa, al di fuori forse di un olismo che raggruppa una serie di approcci al cibo proiettati a guardare oltre quello che c’è nel piatto. Ma così il gioco è troppo facile. Tanto più se di quell’olismo rischia di essere vittima persino l’aggettivo “slow”, che regge ancora se declinato metafisicamente, ma sempre più spesso stenta a coincidere con le modalità di consumo (vedi il nuovo “fast” dello street food, che era uno dei fiori all’occhiello di Terra Madre). Non l’unica contraddizione, a voler spaccare il capello in quattro: pensiamo al chilometro zero che viene messo in scena alle fiere (inclusa questa) a novecento chilometri di distanza.

 

Senza volerci addentrare qui in un ragionamento su Slow Food, interessa invece evidenziare come la commistione tra visioni completamente diverse del food possa creare una certa confusione nelle imprese del settore, specialmente in quelle che si sono da poco affacciate sul mercato.

Più che di tendenze proviamo a parlare di quelli che sono i trend in via di consolidamento o affermazione. Ve ne sono almeno quattro in pole position.

LIFE FOOD– mangiare pensando alla salute (propria, del pianeta, delle generazioni future), possibilmente bio o vegan, monitorando zuccheri/sale/grassi, preferendo tisane e centrifugati, individuando le intolleranze. Cibo come atto sociale o etico/estetico/dietetico.

(RE)DISCOVERY FOOD– i buoni sapori perduti e riportati al presente (antichi vitigni, storico saper fare artigianale, orti puri e duri), la sincerità del territorio, la cucina dei nonni. Oppure, all’opposto l’esotico, gli accostamenti che sfidano il palato, l’azzardo multispeziale. Il cibo come atto ancestrale o, all’inverso, creativo.

HOME FOOD– imparare a cucinare per organizzare cene a casa, appoggiarsi al gruppo solidale d’acquisto, scovare i barattoli artigianali dei mercatini o della gastronomia. Ma anche sfruttare take away e home delivery. Cibo come atto socievole e conviviale o (all’opposto) come atto intimo.

STREET FOOD– occhio al portafogli,  consumo veloce ma chiacchiera allegra con il porchettaro o il piadinaro, che noia questo salutismo, un po’ di fritto ci riconcilia con la vita. Parenti immediati i tapas bar e- con molti distinguo- le pizzerie. Cibo come atto rapace e capace.

 

Ovviamente tutti questi trend, partendo da un intento esterno al palato (star bene, stare a casa, spendere poco, sperimentare ecc.) virano poi sul gusto: nessuno può essere percepito come  un ripiego. E quindi la ragione finale della scelta che il consumatore è invitato a introiettare è quella del sapore più genuino (che dipenda dalla rieducazione vegana del palato o dal sapore deciso del formaggio d’alpeggio).

Ma il gourmet food? E’ più che un trend parallelo a questi. Per la stessa necessità che ognuna di queste categorie esprima ciò che è veramente buono, lo chef di richiamo sarà chiamato a metterci il suo cappello (anche nelle zuppe surgelate o nello street food, oltre che nella ricetta mostrata in tv). Perché invece, preso da solo, il gourmet è per appassionati, non abbastanza per rendere facile la quadratura dei conti.

 

Più precisamente, potremmo dire che i quattro trend cominciano in un discorso sociale (antecedente al’atto di mangiare), si snodano in un’applicazione alimentare di quel discorso e si concludono in una pratica inerente al gusto, e contemporaneamente in un atto con significato sociale. Chi si concentra solo sulla parte delle padelle, o su quella mandibolare, avrà difficoltà a farsi strada nel mercato. Se non ci credete, domandatelo a Petrini.

 

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