Tutti gli studenti universitari di diritto privato rimangono sempre molto colpiti dall’apprendere che persino l’acquisto del giornale presso l’edicolante è un contratto, sia pure molto sbrigativo nella forma. O almeno rimanevano, perché la nostra vita è andata incontro a una contrattualizzazione perpetua, aumentata per via di Internet e dei rapporti a distanza. Non solo: la normativa a tutela dei consumatori ha introdotto una quantità infinita di contratti e appendici contrattuali, e pure il moltiplicarsi di responsabilità amministrative a carico di imprese, professionisti, soggetti privati ha determinato un’ipertrofia contrattuale e documentale.

 

L’intenzione potrebbe essere buona, tutelare le parti deboli di contratti asimmetrici, ma il risultato non è esaltante perché la ridondanza delle clausole cui i consumatori sono sottoposti finisce per distrarli da quelle poche sostanziali. Pochi anni fa il Guardian conteggiò in 180 ore il tempo necessario per leggere le condizioni generali di contratto di alcune app per smartphone o delle piattaforme. Il Wall Street Journal calcolò che cliccare senza leggere costa ogni anno 250 miliardi ai consumatori, presi nel loro insieme.

La questione si focalizza di solito esclusivamente sulla privacy e il possesso dei dati, e in materia ci accingiamo ad accogliere la nuova normativa (che però, facendo di tutt’erba un fascio, rischia di risultare penalizzante per lo svolgimento di normali attività informative delle aziende). Quel che si perde di vista è che, a qualsiasi livello di contatto con il consumatore, le aziende e gli studi professionali devono sottoporre testi scritti da approvare, e questi testi sono scritti in modo incomprensibile.

 

Il diritto è un linguaggio tecnico, non sempre alla portata di tutti. Ma le clausole contrattuali contengono, per il novanta per cento, questioni di fatto che possono essere resi con verbi, nomi e aggettivi comuni. Per il restante dieci per cento il linguaggio giuridico potrebbe comunque essere utilizzato in modo comprensibile. Le clausole di molti contratti dell’azienda con i consumatori sono dei copia e incolla ispirati a formulari amministrativi che non necessariamente si attagliano al caso specifico. E gli stessi contratti con altri stakeholder (fornitori e distributori, ad esempio) risentono del cosiddetto “legalese”, un gergo da azzeccagarbugli. Perché? Due ragioni sono la pigrizia e  l’incompetenza, ovvero la mancanza in casa di risorse o di consulenti che si prendano la briga di adattare il contenuto normativo astratto a quel che effettivamente riguarda quello specifico contratto e quella specifica azienda. Meglio abbondare, insomma: ma un contratto non è mica un buffet! Un’altra ragione è che tanti pensano di disincentivare il consumatore o lo stakeholder dalla lettura di alcune clausole che, a un’analisi attenta, potrebbero dissuaderlo dall’adesione.

 

Ora, se Facebook può fare conto sulla forte motivazione dei suoi utenti, e quindi sul fatto che invece di leggere le condizioni di contratto effettivamente si scoraggino e accettino senza approfondire, la maggior parte delle imprese non può permettersi questo lusso. Accade così che il 70% dei contatti on line (tra quelli iniziali o quelli immediatamente prodromici a un acquisto) si interrompano per il timore e la sfiducia di fronte a quella che viene giudicata una mancanza di chiarezza (qual è), e una simile impostazione si riflette sull’intera contrattualistica di un’azienda o di uno studio professionale. Il modello abnorme dei contratti assicurativi americani o lo stile di rinvio ripreso dai regolamenti amministrativi sono un fardello che pesa occultamente sulla reputazione e sulla redditività di un’impresa.

Tra le grandi corporate, ad esempio, GE Aviation ha compiuto uno sforzo verso una nuova direzione arrivando a ridurre il numero di pagine di alcuni contratti da 54 a 5 o a sostituire, in una clausola, 417 parole con 12.

 

La semplificazione (potrei anche dire la purificazione) linguistica dei contratti rappresenta:

  1. Un obiettivo strategico, per rimediare a perdite occulte di clientela o reputazione e competitività internazionale (si pensi a quanto sia più insidiosa la traduzione di un testo in “legalese” rispetto a un testo chiaro, sintetico e diretto).
  2. Un obiettivo originale di Responsabilità Sociale d’Impresa.
  3. Un obiettivo di comunicazione, se la semplificazione/purificazione viene rimarcata nelle singole clausole e forma oggetto di una campagna pubblicitaria (portata avanti con i mezzi ritenuti più opportuni, che non sono per forza quelli più costosi).

 

Spesso le aziende sono riluttanti a spostare la virgola di una frase perché temono che ne discenda a loro carico qualche responsabilità aggiuntiva verso il cliente. Ma il giurista che non è in grado di setacciare dal “legalese” e dall’obesità documentale le parole che davvero definiscono un rapporto contrattuale , senza possibilità di fraintendimento per il cliente e per l’azienda, non esercita il suo mestiere di giurista.

Vero è che, se si vuole perseguire un successo di marketing, il lavoro del giurista deve intrecciarsi con quello del comunicatore e comporsi all’interno di un metodo ordinato e misurato sulla specifica realtà.

 

Anima in Corporation offre alle aziende competenza giuridica e comunicativa per eliminare quel freno alla competitività che è l’uso del legalese.

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