Un paio di settimane fa, sfogliando un grande quotidiano nazionale, mi sono imbattuto con piacevole sorpresa in una pagina pubblicitaria di Eniday. Di cosa si tratta? Eniday è il web magazine dell’azienda Eni. La sorpresa (e anche la sua piacevolezza), dal mio punto di vista, derivava da questo rimpallo online/offline in direzione di partenza opposta a quella abituale. A cosa serve a un sito web aziendale (e non all’azienda) comprare spazi pubblicitari cartacei? Che un media digitale spunti sulla carta non è una cosa tanto balzana, e lo dimostrano gli spazi acquistati da Zuckenberg per dare conto dell’importanza che Facebook intende attribuire alla nuova normativa sulla privacy. Il pubblico di un quotidiano nazionale comprende non pochi autorevoli influencer (figura erroneamente ricondotta al solo ambito web: l’influence è frutto abituale di una catena di trasmissioni comunicative che può avere il suo principio nella carta).

 

Un segno, dunque, di lungimiranza e apertura mentale da una delle prime aziende che ha intrapreso in Italia la scelta del brand journalism, confezionando un prodotto di eleganza estetica impeccabile e temi che collegano le aree di produzione dell’impresa e la società.

Qualche ombra si allunga però anche su Eniday, a riprova della difficoltà che anche le imprese meglio disposte verso il salto culturale nella comunicazione fatichino però ad attraversare compiuatamente la sponda. L’estate scorsa un documentato intervento di Pierluigi Santoro su DataMediaHub metteva in discussione, dati alla mano, l’utilità del brand journalism di Eni (l’articolo metteva a confronto, da una prospettiva fortemente critica, diversi web magazine d’impresa) .

Gli esiti dell’indagine erano in effetti sconcertanti. Se l’afflusso di visitatori sul sito, quantificato in una media mensile di 25.000, pur modesto, nulla diceva sull’engagement di costoro, ben più impressionante è che il traffico venisse veicolato per il 47% dal Display Advertising e il 22% da referrals. La pagina Facebook di Eni è seguita da 450.000 utenti, però solo il 4% del traffico Eniday è generato dai social! Coloro che arrivano sul sito attraverso i motori di ricerca, poi, sono il 10% e questo depone molto male sulle posizioni degli articoli nella SERP.

 

Nell’articolo di DataMediaHub correttamente si conclude che i risultati (peggiori rispetto ad altre compagnie che praticano brand journalism) dipendono dal fatto che “i prodotti sono ancora troppo ingessati per attirare pubblico e che i social non vengano sfruttati quasi per niente per far conoscere i contenuti prodotti”.

Essenziale, per incontrare il favore del pubblico, è che i contenuti non siano mero infiocchettamento di uno storytelling aziendale. Gli articoli di Eniday, pur marcati da serie professionalità multimediali, hanno indugiato nello spingersi verso quel che più avvince il pubblico, che in linea di massima non è mai sapere quanto brava e bella sia un’azienda. Mi pare di cogliere uno spostamento negli articoli più recenti che, non a caso, hanno anche un discreto posizionamento SERP (in Italia, all’estero ancora non ci siamo). Eniday, in questi tempi, ha affrontato (senza ingombrarli con lo storytelling aziendale) temi come il rapporto tra uragani e cambiamento climatico, i perovsksiti che sono alla base di nuovi apparecchi fotovoltaici, i rifiuti nel mediterraneo, e anche qualche argomento “fintamente” frivolo. Si percepisce ordine redazionale, serietà e intelligenza ma non ancora quel tocco creativo, fortemente personalizzante, autenticamente giornalistico ed emotivamente coinvolgente che un lettore si aspetta da un magazine. Sarà quando le aziende svolteranno verso quest’impostazione, abbandonando ogni scoria del “bollettino”, che il brand journalism decollerà secondo le sue potenzialità.

 

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