Uno dei fenomeni aziendalmente più interessanti che stanno prendendo piede sul web negli Stati Uniti è il brand journalism. Quest’etichetta unisce approcci abbastanza differenti, che hanno tutti in comune la convergenza di media e marketing. Il più semplice è quel brand journalism che costituisce una revisione in grande dell’ufficio stampa di un’azienda e dell’area comunicazione e concerne discorsi sui marchi e i prodotti, sia pure collocati su uno sfondo di respiro più ampio. Il più ambizioso e promettente è la creazione di un medium, di solito un magazine, con cui l’azienda parla di altro dai suoi prodotti, che tuttavia sono sullo sfondo; e, implicitamente o esplicitamente, a un certo punto si ricongiungono con i temi affrontati sul magazine. Il collegamento con discorsi sociali di portata più generale rispetto al puro oggetto commerciale accresce l’audience dell’impresa, la sua reputazione, la percezione dei suoi valori e della sua identità e differenziazione. Ovviamente, tutte queste ricadute positive presuppongono che l’azienda parli con sincerità e metta in coda lo scopo di manipolare l’informazione e gli individui. Sotto questo profilo nulla è più lontano del brand journalism dalla pubblicità. Agire diversamente si trasformerebbe in un boomerang.
Secondo Andy Bull, autore di Brand journalism, uscito nel 2014 negli USA, la prima corporation a imboccare la strada del brand journalism è stata McDonald’s. E’ un’opinione discutibile, sia perché tende a generalizzare troppo il modello di brand journalism, sia perché, con grande dispetto del pubblico che frequenta lo spazio web messo a disposizione di McDonald’s, il gigante dell’hamburger tradisce puntualmente la regola che lo stesso Bull pone alla base del brand journalism: “parlare senza tentare di vendere”.
Tra i due poli di nuova corporate communication che abbiamo indicato prima (l’ufficio stampa rinnovato o il medium di proprietà aziendale) vi sono diverse gradazioni intermedie. Una è il magalog, crasi delle parole magazine e catalogo, che in effetti non abbandona l’immediato appello all’acquisto ma lo inserisce in un contesto di intrattenimento più vasto: anche se non si dichiara tale, ne è un esempio Live Better di Wal-Mart. Il magazine può essere cartaceo ma più frequentemente, per ragioni di costi e facilità di diffusione, è web. Tra i casi più felici di brand journalism vanno sicuramente citati quelli di GE, Adobe e Red Bull. Prendiamo quest’ultimo: il suo web magazine è diventato un riferimento per tutti quelli che amano le manifestazioni di “vita spericolata”.
In questa prima affacciata sul web magazine voglio chiudere con tre punti fondamentali:
- Il sito web magazine parla di solito dell’azienda, il web magazine parla del mondo in cui l’azienda si muove e, quindi, dei bisogni delle persone.
- Il fenomeno è partito dalle grandi aziende, e per questo è stato battezzato “brand journalism”. Ma il riferimento al brand è deviante, è la realtà autentica dell’azienda che entra in gioco nella scelta dei temi appropriati. Per questo Anima in Corporation preferisce parlare di “corporate journalism”.
- Ogni azienda, anche media o piccola, può trovare in un web magazine un elemento di traino decisivo Una ragione in più per adottare “corporate journalism” in luogo di “brand journalism”.
Ma con quali criteri un’azienda può scegliere gli argomenti per un web magazine? E’ uno degli aspetti su cui torneremo in questo spazio.