Lo sforzo principale che le aziende stanno facendo per superare la distinzione tra valore simbolico e valore d’uso del bene è lavorare sul concetto di “esperienza”. E’ frequente che la promessa di un servizio o di un bene consista nell’offerta di una particolare esperienza.
Nel cosiddetto “marketing esperienziale”, l’esperienza si collega per lo più al concetto di straordinarietà. Le imprese, è questo l’assunto, devono concorrere per rendere memorabile l’atto del consumo mediante lo spettacolo o la polisensorialità. Gli esempi classici sono i parchi a tema oppure i concept store o anche i grandi supermercati. In questa declinazione il marketing esperienziale predilige il gigantismo, l’illusionismo, l’intrattenimento, l’emozione. Purtroppo, però, o si ammette che il marketing esperienziale è privilegio di pochi, coloro che hanno ingenti risorse materiali per attivare eventi, coinvolgere l’alta moda, allestire touch-point mirabolanti e sovvenzionare sontuose campagne pubblicitarie oppure, per generalizzarlo come pratica di marketing, si è costretti a forzare la realtà (o a sovraccaricare la dimensione sensoriale), distribuendo piuttosto generosamente le patenti emozionali e di straordinarietà, rischiando così di produrre una sorta di “bolla esperienziale”.
L’esperienza, in realtà, è il processo mentale con cui, nella società attuale, le persone tendono a considerare e vivere utilmente (in senso sia funzionale che valoriale) i beni o i servizi (partendo dalla nozione di esperienza come catena di atti conoscitivi ed emozionali resi possibile dalla percezione). L’esperienza è influenzata dalla comparazione tra le aspettative sulle utilità generate dal bene e il loro effettivo rendimento nel tempo (che va dal momento della scelta a quello del ricordo). Ciò che conta, dunque, non è che l’esperienza sia intrinsecamente eccezionale ma che non sia inferiore alle aspettative. Non di rado, anzi, un sistema di aspettative molto alto può condizionare negativamente l’esperienza. A chiunque di noi sarà accaduto di dire: “Mah, insomma…da quel che ne dicevano mi aspettavo molto di più”. Il marketing si trova sempre di fronte a questo delicato equilibrio: ha da rendere appetibili le esperienze, e non può permettersi il lusso di tenerle basse correndo il rischio che le persone nemmeno si avvicinino ai beni.
Parlando qui di esperienza, pertanto, mi riferisco a un concetto base, che mi sembra definire cosa esattamente le persone acquistano sul mercato. La mia tesi è che oggetto della transazioni sia l’esperienza, cioè l’uso (ripeto, sia funzionale che simbolico) del bene o del servizio. Nell’orientamento al cliente da tempo si è abbandonata la concezione “Cosa è questo bene?”, troppo sbilanciata sul versante della produzione rispetto a quello del consumo con “Cosa fanno le persone con questo bene?”. Ma il lavoro di marketing che ne è conseguito, distaccandosi sempre più dall’offrire una risposta funzionale (Con i biscotti le persone ci mangiano, con gli orologi guardano l’ora…), si è variamente diviso sull’elaborare ciò che le persone ci fanno non funzionalmente: con i beni le persone si emozionano, con i beni le persone si distinguono, con i beni le persone costruiscono la propria identità, con i beni le persone sognano… Per rendere più efficaci questi percorsi separati si è introdotta una mediazione simbolica rafforzativa (il brand) tra le persone e i beni. Ma la domanda giusta da porsi è: “Qual e l’esperienza che le persone fanno con questo bene?”. La definizione di esperienza abbraccia tutto ciò che agisce nel mondo del consumo: è centrata sulla percezione soggettiva del consumatore; è volta a una ricostruzione finale di senso, e perciò è capace di includere tutte le prospettive parziali che abbiamo appena indicato; enfatizza la durata, unisce il cognitivo, l’emozionale, il sensoriale, la percezione sociale di sé; riconosce la funzionalità del bene come baricentro; richiama l’impresa allo sforzo di allargare le prospettive di quell’esperienza. Ma l’aspetto più significativo è che l’esperienza non è precisamente una relazione tra il bene e il suo utilizzatore. Essa è più propriamente una relazione tra una persona e un ambiente il cui contenuto specifico viene determinato dalla mediazione di quel bene. Così se è scontato che è all’impresa non basti studiare il know-how possiamo aggiungere che non le basta nemmeno analizzare il suo consumatore. All’impresa necessita studiare l’ambiente, e quindi scandagliarlo in ognuno degli angoli in cui vi si svolge la relazione e possibilmente immaginare se vi sono altri spazi dell’ambiente che possono essere percorsi da quell’esperienza.
Lavorare sullo scambio di mercato come ordinario generatore di esperienze richiede un’analisi culturale approfondita e variegata, e per questo è abbastanza comune ascoltare che ora al marketing servirebbero competenze antropologiche, sociologiche, psicologiche (e siccome, per formazione, non è comune che le possieda sarebbe bene che andasse ad attingerle da qualcuno che vi si destreggia).
Tornerò prossimamente ad analizzare casi concreti di esperienza e il rischio che questa parola chiave si volgarizzi nell’ennesima, enfatica parola vuota del marketing.
Anima in Corporation aiuta le imprese a individuare quali forme di esperienza possono offrire con i propri beni e servizi.