E’ ormai pacifico che il possesso di un’identità riguardi non solo gli individui ma anche le aziende: essa coincide parzialmente con l’identità personale, per il piccolo imprenditore, e invece sussiste autonomamente in un’organizzazione più complessa, risultando dalla combinazione fra il brand, la mission dell’impresa, la sua strategia operativa e l’immagine che essa vuole proiettare all’esterno. Una delle più soddisfacenti definizioni prodotte degli studi specialistici riassume l’identità di un’azienda nell’incontro fra quattro sue caratteristiche: personalità, comportamento, comunicazione e simbolismo.
Benchè l’identità abbia sempre una connotazione sociale, nel senso che per quanto possa essere introspettiva essa si sostanzia nel distinguersi rispetto agli altri, vi è una sua parte che è estremamente rilevante nella percezione esterna, che possiamo definire identità culturale.
L’identità culturale di un’azienda, più precisamente, consiste:
L’identità culturale, dunque, non si confonde con l’attività esercitata dall’azienda ma costituisce la sovrapposizione distintiva della personalità a quell’attività.
L’idea al fondo della consulenza per l’identità culturale di un’azienda è che questa parte dell’identità sia essenziale nelle scelte di consumo delle persone e che il modo più semplice ed efficace di rappresentarla e comunicarla, da parte dell’imprenditore, sia legato alla padronanza e all’uso di strumenti tipicamente culturali.
Per strumenti tipicamente culturali intendiamo in primo luogo quelli che rientrano tradizionalmente nella “produzione culturale”, quando i loro contenuti sono individuati come cultura. Dunque testi, musiche, video, disegni, foto, elaborazioni grafiche, slogan ecc. Non basta, appunto, che lo strumento sia naturalmente culturale ma è necessario che il suo contenuto trascenda la comunicazione bilaterale o la soddisfazione intimistica: un video è uno strumento culturale ma non se riguarda un battesimo ed è rivolto alla fruizione familiare.
Rientrano tuttavia negli strumenti culturali anche gesti, azioni, usanze o altre condotte quando: a) siano utilizzati consapevolmente; b) rivestano una funzione comunicativa; c) eccedano la materialità dell’atto; d) mirino a ottenere un effetto socialmente rilevante, anche se con un fine egoistico.
Un modo di salutarsi tra persone oppure l’uso del lei o del tu non sono per loro natura strumenti culturali (lo sarebbero semmai le analisi sociologiche che li studiano o i film che li raccontano). Ma quando assommano tutte le quattro caratteristiche di cui sopra, e quindi rispondono a una precisa e generalizzata strategia volta a essere identificati in un certo modo, possono diventarlo. Un comportamento materiale, come spostare una sedia, non è uno strumento culturale se è rivolto all’appagamento di un bisogno fisico ma lo diventa quando si propone di comunicare qualcosa (lo sarebbe certamente in una performance artistica o nella disposizione in un locale di tutti tavoli con due sedie). Quanto alla comunicazione, non sempre è necessario che questa abbia effettivamente dei destinatari: anche un non credente dovrà riconoscere che la preghiera è uno strumento culturale. Importante, infine, è l’ultimo tra gli elementi indicati come requisiti per la “culturalità” di una condotta: con effetto socialmente rilevante si intende l’idoneità di quel comportamento a essere percepito da persone non predeterminate o da gruppi suscitando in loro una reazione, cioè un’altra condotta o una risposta emotiva, oppure l’essere a sua volta una reazione di questo tipo.
Il consulente per l’identità culturale dell’azienda opera stabilmente con la prima categoria di strumenti culturali ed è in grado di utilizzare e valorizzare i più significativi della seconda categoria. Il suo scopo è supportare l’imprenditore, alternativamente o cumulativamente: 1) nell’auto-percezione della sua identità culturale; 2) nella declinazione coerente di tale identità; 3) nella sua rappresentazione; 4) nel modo di comunicarla.
La convinzione che la cura dell’identità culturale sia necessità primaria per ciascuna azienda trae notevole consolidamento dai profondi cambiamenti avvenuti nell’ambito del marketing.
L’azienda ha contribuito a velocizzare i tempi dei cambiamenti sociali ma rischia di restarne vittima se non si adegua solertemente alla profondità di quei mutamenti e alle diverse strategie che essi richiedono. Vi sono due evoluzioni storiche che si trovano ormai alla radice dei manuali di marketing, che pure già cominciano a essere in odore di obsolescenza o incompletezza:
Ovviamente, la conoscenza di queste dinamiche non determina automaticamente il campo d’azione, visto che tanto l’orientamento al cliente quanto lo storytelling vanno poi riempiti di contenuti. Ma il problema principale è che questi assunti risultano del tutti insufficienti quale bussola di navigazione per le aziende a fronte del rapido emergere di una serie, più o meno incontroversa, di situazioni in parte contrastanti tra loro, che mettono in dubbio la validità delle antiche premesse o quanto meno ne rendono più complessi un reciproco coordinamento e la consequenzialità operativa. Emerge infatti che:
Questo rimescolamento vertiginoso introduce a una più complessa armonizzazione di strategie e mette in crisi le visioni “moniste” dei guru, che individuano con certezza nell’uno o nell’altro elemento i fattori di successo di un’impresa. Oggi sarebbe azzardato dire ancora che nella comunicazione aziendale le persone cercano una “fede” cui aderire piuttosto che informazioni ma altrettanto avventato sarebbe profetizzare il declino dell’elemento emozionale. Se il brand o la sua storia sono modi per generare un “valore” che in qualche modo si svincoli dal prezzo, oggi la ricerca del “valore” impone nuovi sforzi di comprensione della società e delle relazioni che la governano nel suo insieme (non isolando quelle che si creano nel mercato). Perfino Philip Kotler ha riconosciuto, coniando la definizione di marketing 3.0, che la nuova era reclama “approcci di marketing più collaborativi, culturali e spirituali”.
Cinque punti sembrano essenziali in questa nuova prospettiva.
Il consulente per l’identità culturale è dunque colui che, in possesso di una competenza a orientarsi nei vari settori della cultura, è in grado, creativamente, di individuare per ogni azienda una compiuta e personalizzata strategia sull’uso alternativo o cumulativo dei diversi strumenti culturali, selezionando i più adatti al caso e i loro contenuti, e soprattutto coordinandoli secondo un progetto unitario e in funzione di un’identità coerente. Oppure, a fronte di strategie già decise o consolidate dall’azienda, ricerca e individua i contenuti culturalmente più adatti.
Il consulente culturale per l’identità dell’azienda, in alcune delle sue attività, è un analista creativo che si pone pertanto al crocevia tra i progetti di comunicazione finalizzati al marketing, il digital content, il brand management, il corporate social responsability management, la consulenza d’immagine, la direzione artistica degli enti, il coaching e in altre sue attività completamente innovative, costituisce uno sviluppo di ciascuna di queste realtà. Interlocutore del consulente culturale, pertanto, può essere uno degli uffici già preposti a tale attività oppure direttamente l’azienda. Il marketing, del resto, è ormai diviso in una serie di sottobranche specialistiche (un recente, autorevole testo ne enumera ben 77) e il consulente culturale per l’identità è in grado di porsi in maniera dialettica e complementare con ciascuna di esse, come di condurre autonomamente un discorso strategico. Questa forma di consulenza è applicabile per aziende di qualsiasi dimensione, è idonea a operare nello start-up, nel rebranding, nel monitoraggio dell’attività che non vuole perdere l’occasione di innovare nella continuità. Può essere utilmente speso anche all’interno dell’azienda, come formazione per coloro che ci lavorano, o all’inverso proiettarsi verso l’indagine di culture nazionali diverse a supporto delle condotte dell’azienda che intenda lavorare sull’esportazione di beni o servizi.
A maggior ragione in una fase di recessione economica il consulente per l’identità culturale contribuisce alla differenziazione dell’azienda che può assicurare il decisivo vantaggio competitivo.
Entrando nel dettaglio della metodologia, il consulente svolge in primo luogo, a mezzo di una relazione scritta, un’analisi critica dell’attività aziendale vista sotto la lente dell’identità culturale. Il suo obiettivo è di valutare se quella che l’imprenditore sente come sua viene correttamente espressa, se esiste una sorta di “inconscio culturale” che emerge dentro l’identità e la rende più attraente (o al contrario intralcia quella consapevole) e di indicare concretamente quali condotte possono mettersi in atto, e con quali mezzi, per valorizzarla a pieno sul piano espressivo e comunicativo (badando a indicare alternative anche sul piano dei costi). Successivamente, il consulente vigila sull’attuazione della strategia che l’imprenditore volesse effettivamente porre in essere, ne verifica l’andamento e propone eventuali correttivi. Qualora tale sia la richiesta dell’imprenditore, il consulente può anche dirigere le attività e/o, ulteriormente, gestirle.
Come si diceva, il ricorso a strumenti culturali tipici può prevedere indicazioni relative a forme di comunicazione esterna formale o informale, redazione di testi, biografie, storytelling, elaborazione di slogan, uso di musica, arti visive e letteratura, scelta di cause pubbliche da sostenere, suggerimenti su partnership, video, organizzazione di eventi in proprio, partecipazione a eventi altrui, contenuti di siti web, corporate journalism o brand journalism a mezzo di web magazine che si occupino di tematiche non direttamente legate alla produzione dell’azienda.
Ma nell’accezione ampia di “uso di strumenti culturali” la complessità dell’attività creativa del consulente può essere resa dalla figura che segue:
Il consulente si muove sullo sfondo di mappe concettuali, continuamente rivisitate e sviscerate in sotto-mappe. Si preferisce anzi parlare di “mappe di senso” con riferimento a una geografia del senso, nella quale gli approcci d’indagine sociale vanno rivisitati alla luce della maggiore permeabilità che modella le categorie tradizionali di riferimento. Sempre più spesso si rivela insoddisfacente un metodo di classificazione fondato esclusivamente sull’accorpamento dei dati anagrafico-sociali più evidenti e velleitario pretendere di stabilire le condotte uniformi dei 35/50enni impiegati trevigiani. L’antica filosofia del target rischia di diventare uno strumento preistorico. Le mappe del senso ricostruiscono più profondamente i legami, le relazioni, le scomposizioni e i fattori culturali che le determinano.
Anche nell’apprezzamento sulle persone, i tratti strettamente caratteriali e la competenza in un’attività si percepiscono sullo sfondo della sua identità culturale, che colora gli uni e l’altra in un modo diverso. Da uno straniero, semplici e superficiali tratti caratteriali come la serietà e la simpatia, sono, ad esempio, recepiti diversamente a seconda dello stereotipo nazionale o regionale di colui che lo possiede. Essi devono mantenere un delicato equilibrio per evitare che un possibile “finalmente un italiano serio” o “il solito divertente italiano” diventino “un italiano insolitamente noioso e pedante” oppure “il solito cialtrone italiano”.
L’identità culturale, sul piano relazionale, funge da camera di compensazione di quei tratti temperamentali che potrebbero risultare spigolosi, indigesti o suscitare distanza. Immaginiamo come un atteggiamento aggressivo di qualcuno possa assumere il colore della furente indignazione, e per questa via suscitare invece che sgradevolezza addirittura ammirazione, qualora sapessimo che il soggetto che lo esprime ha una biografia e degli obiettivi strettamente legati a una difficile battaglia sociale.
Il rapporto con l’azienda non funziona diversamente, e non solo nel caso in cui la ridotta dimensione della stessa, o la sua marcata centralizzazione, porti a coincidere la personalità identitaria dell’azienda con quella del soggetto fisico che la anima e la dirige. L’umanizzazione dell’impresa, che la rende per esempio nel campo giuridico un personaggio socialmente quasi più rilevante degli esseri in carne e ossa, è divenuta un dato portante del sistema sociale e della psicologia individuale.
Nonostante l’apparente superficialità delle relazioni (o forse proprio per compensare quella) si ricerca nel contatto col prossimo, anche quello mercantile, una giustificazione culturale di quelle vicinanza, che corrobori e rassicuri sulla scelta del contatto. Molto significativo è stato il successo di Facebook, che propone esattamente la riorganizzazione degli individui in funzione della loro identità culturale comune, la quale può consistere nella condivisione di un interesse (che deve assurgere a dignità sociale per essere preso in considerazione da un certo numero di persone) o nella stessa provenienza biografica (e quindi sono proliferate le ricerche dei vecchi compagni di scuola o di tutti quelli che avevano fatto un certo sport). Altrettanto interessante è il fatto che Facebook, non del tutto a torto, sia stato tacciato di essere poco più di un metodo per “rimorchiare”: ma, viste le condizioni di partenza, il rimorchio avveniva all’interno di una selezione realizzata a mezzo di una comune identità culturale. Il fatto che, spesso, tale identità fosse eccessivamente parcellizzata ha portato a un parziale declino dello strumento, ma esso si può definite come un massimizzatore delle aspettative indotte dalle identità culturali delle persone.
Il consumatore richiede chiarezza all’esperienza di consumo che gli viene prospettata e sfugge a quelle amorfe che, in quanto tali, non hanno da offrire alcun appagamento alla sua personalità. Sempre più la scelta di consumo è favorita dal fatto che colui dal quale la si compra abbia meritato di venderla, in funzione della sua identità culturale. Naturalmente questo merito può sostanziarsi in attrattive del tutto diverse: ciò che apprezziamo potrebbe consistere nel sentirci parte della comunità che il marchio esprime o dello scopo che vuole realizzare; di somigliare alle persone che fanno normalmente quell’esperienza o di apprezzare di vivere un’esperienza diversa rispetto alla nostra ma che per la sua autenticità, e capacità di rappresentazione in scala, ha migliorato la conoscenza di qualcosa su cui eravamo informati in modo insufficiente.
Nel tema che qui ci interessa, la continuità nel cambiamento è un concetto importante: l’identità culturale non deve essere qualcosa di rigido e fissato nel tempo, non solo perché cambia il modo di collocarsi nella società (non foss’altro perché cambia anche la società) e perché questo dinamismo è rispondente allo sviluppo della personalità umana (e confliggente con l’impostazione del target che per anni l’ha congelata) ma anche perché gli stessi elementi di identità biografica, per lo più, sono in rapporto dialettico con la società (si modifica in seno ad essa, per esempio, la posizione della donna o i suoi obiettivi) e anche mutano naturalmente (come il fattore generazionale, o perché l’età passa o perché cambiano i gusti delle nuove generazioni e sempre più l’azienda deve essere attenta a non perdere di vista il passaggio di rottura che ciascuna generazione intende segnare rispetto a quella precedente).
La sostanza dell’anima, la sua immaterialità, è sempre stata associata al mistero nel suo riferirsi a un corpo.
Da qualunque angolazione (religiosa, morale, psicanalitica, filosofica) sia stata ipotizzata, tuttavia, l’anima si situa come mediatrice, sempre su una soglia, su un confine: tra la materia inanimata e Dio, tra l’emotività e la ragione, tra l’unicità dell’individuo e la sua appartenenza sociale, tra la coscienza consapevole e l’irriflessione, tra l’innatismo e l’esperienza, tra la deriva verso l’autosufficienza e la ricerca di un centro. Autorealizzazione ma anche disponibilità alla rinuncia, nucleo incorruttibile ma anche conquista.
Per un ente immateriale come l’azienda, l’immaterialità dell’anima, lungi dall’essere una contraddizione da ricomporre, è il complemento più autentico.
In una famosa teorizzazione di marketing, il cosiddetto modello Ballmer/Soenen, l’identità dell’impresa viene declinata dentro una trinità composta da anima, mente e voce. La prima comprenderebbe i valori che nutrono l’impresa da dentro, quali la cultura, l’immagine interna e l’affinità dei dipendenti. Ma non sembra corretto porre su un piano diverso la visione e la filosofia dell’azienda (ascritta alla mente, la parte che pianifica) o il simbolismo e la comunicazione controllata (inclusi nella voce). Ci piace invece immaginare che l’anima non sia il ripiegamento interiore dell’azienda ma piuttosto (come è proprio di un’anima) quella mediazione che sintetizza l’incontro tra l’aspirazione utilitaristica e la responsabilità sociale, tra la percezione di sé e la traduzione coerente di questa percezione sul piano delle relazioni. Che l’anima in corporation sia il sé più autentico e profondo. Una consapevolezza etica. Il segno inconfondibile. La ragione sociale.