Come rispondere alla domanda: chi è quell’azienda? Cosa distingue la Apple dalla Ferrari o la Banca d’Alba dal bar all’angolo? Quello che produce, il modo in cui è organizzata, il management che la dirige, le risorse umane ed economiche, la sua mission, il brand. Certo, tutto questo differenzia un’impresa dall’altra e costituisce una parte della sua identità. C’è un altro pezzo di identità, però, ed è importantissimo per la differenziazione e per la reputazione: è l’identità culturale.
C’è stato un tempo in cui alle persone interessava acquistare solo i prodotti. In seguito c’è stato un tempo in cui i consumatori, classificati come target e cioè bersaglio da colpire, venivano soggiogati dal brand aziendale. Adesso, nella maggior parte dei settori, alle persone non interessano solo il prodotto, il prezzo e l’immagine veicolata dal brand: essi danno un grande valore a chi veramente sia l’azienda, tanto che il marketing più moderno si definisce relazionale ed è affermazione condivisa che i mercati sono conversazioni. Ancora più vero è che le persone misurano le aziende da come vivono fuori dallo scambio di mercato e da come le loro politiche di mercato si integrano nei significati sociali.
Tanto più un’azienda ha qualcosa da dire fuori dal mercato tanto più incrementa le sua chance di successo. Non è così strano: è quello che accade con la sponsorizzazione, moltiplicato per mille.
L’identità culturale, peraltro, è anche la capacità di un’impresa di dire qualcosa sul mondo attraverso i suoi beni e servizi. Tutto il mercato del food, ad esempio, nelle sue più recenti declinazioni bio, si occupa sempre di qualcosa di più che saziare la fame e offrire un gusto.
Il consulente per l’identità culturale delle impresecerca per prima cosa di farsi un’idea di quella che è la vera identità dell’azienda, e di scoprire se l’identità è allineata all’immagine. Il suo scopo non è quello di negare il brand ma di costruire il brand marketinga partire dall’identità culturale dell’azienda (possiamo definire un simile approccio come corporate branding).
Il consulente per l’identità culturale delle aziende è uno specialista degli strumenti culturali, e quindi non il preconcetto assertore di una modalità di comunicazione piuttosto che di un’altra: decide quale fra tutti gli strumenti culturali possibili siano appropriati per valorizzare e rappresentare l’identità di quella specifica azienda.
Una società pubblicitaria proporrà una campagna pubblicitaria, perché quella è la sua materia, una società di web marketing il rafforzamento digitale. Il consulente per l’identità culturale potrebbe suggerire all’azienda queste strade, realizzandone il contenuto, ma potrebbe invece ritenere, per una data azienda, più proficuo che apra un museo, inventi un festival, si allei con un’altra azienda per allargare il significato sociale di quello che vende, faccia spuntare flash mob negli angoli delle città, adotti e renda pubblico un codice etico personalizzato, diventi opinion leader grazie al brand journalism, pratichi attività a favore della comunità, lanci dei video stravaganti, organizzi dei corsi qualificanti per accreditarsi nel B2B…e dare esecuzione a tutto questo.
Quando è possibileil consulente spinge l’azienda verso l’innovazione culturale. Si parla sempre di innovazione tecnologica, ma l’innovazione vincente è prima di tutto quella culturale. Si ha innovazione culturale quando alle persone viene offerto un motivo in più, rispetto a quelli esistenti, per acquistare un bene o un servizio. Il telefonino è esploso non quando ha dato alle persone la possibilità di chiamare dall’esterno ma quando ha offerto la possibilità di mandare dei messaggi scritti o delle immagini. Questo è stato possibile grazie alla tecnologia, ma la tecnologia sarebbe rimasta inutilizzata se non si fosse stata un’innovazione culturale: mettere in comune con gli altri i momenti della vita per conservare in questo modo le relazioni sociali, o addirittura per crearne di nuove.
L’identità culturale delle imprese è stata teorizzata per la prima volta nel libro “L’identità culturale delle aziende di Remo Bassetti, fondatore di Anima in Corporation. Il volume è stato pubblicato da Franco Angeli nel maggio del 2016. Benchè l’espressione sia stata coniata da Bassetti, e il concetto da lui elaborato, ovviamente, aziende con una forte identità culturale esistevano già prima.
Ma da quale momento le persone hanno cominciato a interessarsi all’impresa, piuttosto che solo ai suoi prodotti o al brand aziendale?
Il fenomeno è relativamente recente, e trae origine dal concetto di responsabilità sociale d’impresa, sviluppatosi prepotentemente negli ultimi 15 anni. La Corporate Social Responsability, secondo la definizione della Comunità Europea, è la responsabilità delle imprese relativamente ai propri impatti sulla società. La novità è che il comportamento dell’azienda non è più irrilevante ai fini delle scelte di consumo. Il passaggio successivo è che l’impresa diventi fino in fondo un essere “socialmente vivente” e che sia possibile, per le persone, ricostruirne la personalità più autentica e profonda e avere a che fare con lei, o vederla in contesti pubblici, anche al di fuori dello stretto rapporto commerciale.
Dal punto di vista teorico, un importante precursore del concetto di identità culturale dell’impresa è il societing, portato a notorietà dallo scomparso Giampaolo Fabris, il principale sociologo dell’impresa italiano.
L’identità culturale d’impresa, inoltre, si può ritenere imparentata con il marketing 3.0, coniato dal guru Philip Kotler (che quarant’anni dopo avere dettato le regole del marketing tradizionale ha adeguato le sue stesse teorie alla mutata epoca) come marketing che si rivolge “all’anima”.
A consolidare nel marketing internazionale l’idea che l’impresa non abbia solo un’immagine ma anche un’identità sono stati gli studi sulla corporate identity di J. M. T. Balmer
L’Italia non è un paese all’avanguardia nel rifondare la comunicazione e le strategie d’impresa secondo gli imperativi del marketing moderno. E’ incredibile, ad esempio, il divario che esiste tra il definirsi come azienda che rappresenta il made in Italy e la totale incapacità di spiegare perché, nel caso specifico, l’espressione “made in Italy” aggiunga qualcosa in più alla pura e semplice indicazione di nazionalità. Un esempio è offerto dal riso che talmente poco è riuscito a comunicare le (notevoli) peculiarità di “made in Italy” da subire l’umiliazione di vedere cucinato il risotto alla milanese con il riso orientale negli stand dell’Expo! Ma si potrebbero trovare esempi per quasi tutti i settori.
Dal punto di vista degli strumenti tecnologici, poi, tuttora un quarto delle imprese italiane difetta persino di un sito web. In questa fase di declino economico l’errore di molti è “tagliare” sulle spese di comunicazione, come se le strategie e i prodotti fossero elementi estranei alla comunicazione, che dovendo scegliere, vengono salvaguardati a scapito di quest’ultima. In realtà il prodotto, oltre a essere un bene o servizio che appaga un’esigenza materiale, è anche una comunicazione, che va strategicamente e sin dall’inizio coordinata in simbiosi con la parte tecnica e organizzativa della produzione.
La comunicazione, inoltre, diventa oggi ancora più importante, poiché vitale per l’impresa è comunicare la sua identità più profonda. Il focus dell’attenzione si sta spostando dal “cosa” della produzione al “perché”,e l’identità culturale è in grado di offrire una risposta a questo interrogativo.
L’impresa che vuole lavorare sull’identità culturale deve prendere quali primi riferimenti quattro parole-chiave fra quelle che sono state messe in evidenza dal marketing più moderno.
Autenticità – Reputazione – Community – Viralità
Il business di un’azienda, infatti, oggi non può essere disgiunto dal fatto che l’impresa
Questi risultati presuppongono che l’azienda:
Fare identità culturale in azienda significa provare a rispondere alle domande che abbiamo indicato sopra, che dal punto di vista dell’azienda sono (immaginando che si esprima in prima persona singolare):
Lo storytelling aziendale non sembra ad oggi avere trovato una definizione univoca soddisfacente. In linea di massima si tratta di un approccio alternativo al messaggio commerciale nel quale:
Benchè lo storytelling abbia in qualche caso prodotto buoni risultati, nell’insieme però esso non ha ancora segnato quel preteso punto di svolta. Si deve infatti di solito constatare che:
Insomma parlare di storytelling di frequente è un bello storytelling della società di comunicazione che lo propone, ma non serve all’impresa che lo riceve.
L’identità culturale si sofferma sulla necessità che le imprese parlino di qualcosa che non siano loro stesse: e che anche quando parlano di loro stesse trasmettano messaggi significativi (in termini informativi o emotivi) per coloro che li ricevono. Al centro dell’identità culturale dunque ci sono i discorsi. Le storie, piuttosto, sono una delle componenti più importanti dei discorsi.
Si può dire che lavorare sull’identità culturale dell’impresa significhi migliorare la sua ricchezza comunicativa e creare un ponte tra significati sociali e relazioni di mercato.
L’impresa che parla di altro da sé, comunque, parla nel modo più efficace dì se stessa, dato che mette in luce i suoi valori, i suoi comportamenti, le sue appartenenze e il suo immaginario.
Oggi viene giustamente considerato essenziale l’inbound marketing: non è l’azienda a trovare il consumatore (con la pubblicità) ma è il consumatore a trovare l’azienda nel momento del bisogno (ad esempio sul web, grazie alla seo). Si tratta di una metodologia di grande valore, ma anche un po’ ingenua: l’inbound marketing presuppone una persona allo stadio zero, scevra da pregiudizi e conoscenze. Su questo piano la pubblicità è più realista, perché immagina di contribuire a formare l’individuo prima del bisogni, anzi inducendogli quello. Il vero problema, semmai, è diventato l’affollamento degli spazi pubblicitari, che peraltro, saturata la televisione, sta riversandosi anche sulla Rete.
Il consulente per l’identità culturale ritiene che la soluzione migliore sia nell’integrazione degli strumenti, e aderisce all’opinione che la tradizionale distinzione tra attività below the line e above the line sia superata a vantaggio di un mix through the line. Ma soprattutto, ritiene che le persone scoprano e percepiscano i loro bisogni mentre sono impegnati in discorsi che li toccano lateralmente, e cerca di far sì che l’impresa sia presente in quei discorsi, come partecipante o come opinion leader.
Un’azienda che vende costumi da bagno potrebbe decidere di fare pubblicità sui giornali, in modo che le persone pensino: “bello, mi serve proprio quel costume”. Un’azienda che punta sul digitale farà in modo che alla ricerca “costumi da bagno” il suo appaia per primo sui motori di ricerca.
Un’azienda che si allinea all’identità culturale, mentre segue una di queste due strade o le pratica entrambe, cercherà di essere presente nei discorsi che riguardano il mare. Ad esempio raggiungendo gli appassionati di surf con dei video sul canale You Tube oppure allestendo una procedura di rilevazione del grado di inquinamento sulle coste.
Lush è un’azienda di cosmetici che conta 900 negozi in franchising nel mondo. Il suo successo si fonda sulla totale capacità di differenziazione dai concorrenti, grazie al fatto che a) il significato degli aspetti della produzione va sempre oltre la vendita della merce; b) anche chi in partenza non si interessa di cosmetici viene attratto da Lush grazie al fatto che l’azienda si impegna in azioni e discorsi che riguardano una visione del mondo e un comportamento conseguente.
Così Lush porta avanti il rispetto per il prossimo, per l’ecologia e per ma natura; contesta alle radici le tradizioni della cosmetica e bandisce la chimica dai prodotti per dare spazio a oli essenziali, frutta e verdura fresca; si pone come opinion leader di gruppi dalla crescente rilevanza sociale come i vegani, gli animalisti e gli epigoni della generazione X femminile; nei suoi shop mette in scena performance contro il bullismo o l’omofobia; razzola come predica, perché tende all’eliminazione degli imballaggi e per farlo arriva a solidificare prodotti liquidi, come lo shampoo; gioca con i colori, la sensualità e i nomi; non disdegna di prendere posizioni politiche, ad esempio avversando duramente il TTIP e, più in generale, cerca di abbinare l’estremismo delle posizioni a un costante messaggio non-violento; si affida a diverse forme di marketing e comunicazione non convenzionali.
Lush incontra i suoi potenziali clienti in spazi sociali molto più vasti dello scambio di mercato, e in questo modo rinforza ed incrementa il suo spazio di mercato.
Lush è un esempio di brand marketing costruito a partire dall’identità culturale dell’impresa. Il brand Lush non avrebbe lo stesso valore se non fosse stata prima resa visibile l’identità più autentica dell’impresa.