Per apparire in testa alla pagina sui motori di ricerca, come è noto, ci sono due sistemi: uno è gratuito e consiste nella capacità di produrre un contenuto che il motore di ricerca riconosca di qualità e pertinente con la parola chiave ricercata; l’altro è la pubblicità a pagamento, la più nota ed efficace delle quali è AdWords di Google, esistente in varie declinazioni, una delle quali è la campagna Search che, appunto, colloca un’inserzione in testa alla serp (ma con l’evidenziazione che si tratta di un annuncio a pagamento).

Una campagna AdWords, secondo il mio punto di vista, non deve assurgere a strategia principale: all’annuncio a pagamento l’utente medio non riconosce la stessa credibilità di un contenuto che i motori di ricerca spingono in alto “spontaneamente”. Può tuttavia risultare molto vantaggiosa per campagne promozionali di eventi specifici o promozioni di prezzo. In realtà, a pagamento o meno che sia, l’apparire di un’azienda sul dispositivo assolve sempre una funzione di brand awareness: ma in quel caso, come formula AdWords, Display (l’inserzione non compare nella fase dell’inbound marketing, quando l’utente sta indagando su un suo bisogno,che c’entra con l’azienda, bensì nel complesso della sua navigazione) pare più opportuna.

Non a caso la regola base di AdWords Resarch è quella del PayPerClick (PPC): l’inserzionista paga soltanto quando gli utenti cliccano effettivamente sulla pubblicità, indipendentemente dal numero di visualizzazioni sulla pagina di ricerca (a chi persegue la brand awareness, invece, le visualizzazioni interessano almeno quanto gli accessi). Il costo deriva da un’asta fra gli inserzionisti che, però, mette in conto oltre al prezzo che l’inserzionista è disposto a pagare anche la pertinenza e la qualità della pagina di destinazione: ha il vantaggio di essere predeterminabile nel tetto massimo. Non vale la pena qui di ricordare che ci sono alcune regole di base violando le quali si condanna la campagna a un probabile fallimento: il mancato utilizzo di una landing page studiata ad hoc per la singola promozione (insomma, la campagna sarebbe sprecata se il link conducesse a una pagina qualunque del sito aziendale o professionale), il mancato monitoraggio del suo andamento per apportare correttivi, il mancato test sul punteggio della parole chiave, l’impiego di un numero eccessivo di parole chiave che finisce evitabilmente per rendere il testo meno “pertinente” rispetto a ciascuna di esse (e quindi meno efficace e più costoso).

Il marketing con AdWords, alla luce di quanto abbiamo detto, sembrerebbe strettamente intrecciato con il cosiddetto funnel: l’imbuto che da una parte alta (contenente le visualizzazioni) transita per la parte media del contatto e della relazione e termina in quella stretta della clientela.

Il funnel è un misuratore di conversione, e conversione è la vera “parola chiave” dell’azienda o dello studio professionale che pianifica una campagna pubblicitaria il cui scopo, evidentemente, sarebbe quello di “convertire” in clienti coloro che sono arrivati alla parte alta dell’imbuto. Nelle illustrazioni più evolute dei funnel, la conversione arriva dopo una serie di azioni e interazioni che bene indicano come le aziende di successo siano quelle che sanno intraprendere con i consumatori una qualche forma di relazione, magari con la pazienza di non pretendere risultati a breve termine.

Della campagna AdWords, però, abbiamo sopra lasciato intendere come essa sia naturalmente efficace quando si tratti di “vendere” qualcosa: con una promozione che raggiunge l’utente proprio mentre sta cercando un certo prodotto o servizio, il filtraggio del funnel è ridotto (ci sono meno livelli e dalla parte alta si passa direttamente in quella finale) o più veloce (le relazioni sono giusto quelle strettamente commerciali utili per fruire della promozione).

Accade così che l’azienda voglia spingere il content marketing, offrendo ad esempio ebook, white paper o video che rispondano a domande del suo pubblico (non necessariamente privato: il discorso calza perfettamente anche per un’azienda B2B) per crearsi una reputazione, e decida di accelerare il cammino di questi suoi contenuti con una pubblicità su Google AdWords: e che, a questo punto, si trovi posta dinanzi a un serio dilemma.

 

Non c’è dubbio che: 1) trattandosi di content marketing all’azienda prema la diffusione effettiva e non bastino le visualizzazioni; 2) l’obiettivo ideale sarebbe attrarre visitatori nel funnel e tracciarli; 3) il modo più trasparente di tracciarli e giustificare un contatto successivo sarebbe ottenerne, mediante la compilazione di un form, i dati e un indirizzo mail.

Ma se questa è la strategia di un’impresa o di uno studio professionale che la reputazione deve ancora guadagnarsela, l’ottenimento dei dati può rivelarsi un passaggio parecchio spinoso. Per quanto il contenuto offerto possa essere allettante, l’utente che non conosce l’azienda che lo ha realizzato ne giudicherà la credibilità dopo averlo letto e sarà poco incline a offrire i suoi dati prima di sapere se ne valeva la pena.

Vediamo dunque che in mezzo all’apparente dicotomia tra visualizzazione e contatto si inserisce una posizione intermedia, che potremmo definire semicontatto o super-visualizzazione. L’azienda avrà cura di preparare una pagina di atterraggio coinvolgente, ma la sua intenzione non era di portare gli utenti sulla pagina di atterraggio bensì di condurli a un contenuto più qualificato. Se l’utente si demotiva alla richiesta di dati e non scarica il contenuto (cambia relativamente poco anticipare la richiesta di dati prima della possibilità di scaricare, e anzi tendenzialmente peggiora la situazione), l’azienda di fatto avrà pagato delle visualizzazioni (anche se super-visualizzazioni), non dei”click”. Se riprendiamo la questione utilizzando l’immagine del funnel, potremmo dire che l’utente viene chiamato a decidere se entrare nella parte mediana ma l’azienda sta pagando per un accesso nella parte più alta.

 

 

Il quesito è: cosa è opportuno fare? Rinunciare ai dati, e quindi rimettere la call to action all’iniziativa futura del potenziale cliente, ottenendo una diffusione più elevata, oppure puntare esclusivamente sui contatti, riducendone inevitabilmente il volume (e pagando nella sostanza visualizzazioni?).

Si tratta di un dilemma analogo a quello che si è già posto in materia di syndication, ovvero: quando si mettono contenuti sul sito è meglio consentire all’utente di copiarli e trasportarli altrove oppure è preferibile trattenerlo sul sito, sperando che questo lo motivi maggiormente alla scoperta di altri contenuti? A nessuno di questi problemi è possibile fornire una risposta “esatta”, poiché quando si tratta di strategie comunicativa la standardizzazione è nemica del bene. E però la maggior parte delle volte diffondere il contenuto, pur perdendone il governo, risulterà più proficuo in termini di brand awareness.

Egualmente, quando il contenuto ha veramente un peso, si può fondatamente sperare che il lavoro del “commerciale” lo svolga lui. Accettare di perderlo di vista (cioè ignorare chi lo ha scaricato), insomma, può regalare la sorpresa di vederlo tornare con degli ospiti. Non si ragiona in questo caso per raggiungere più persone possibile nel funnel ma più funnel possibili in casa delle persone.

 

Esistono, beninteso degli accorgimenti per rendere più probabile che il funnel non venga tenuto nel cassetto. Essenziale è che il contenuto sia autosufficiente ma aperto: all’utente deve essere ripetuta in più parti del testo o del video la necessità di procedere alla call to action (e di entrare nel funnel) per ricevere contenuti analoghi o avere accesso al seguito di quello che ha letto (o addirittura a una sua prima personalizzazione). Ci sono altri due aspetti, a monte, che non vanno trascurati: la rigorosa profilazione degli utenti ai quali verrà mostrata la pubblicità AdWords e la caratterizzazione nel modo più incontroverso della categoria di soggetti cui il contenuto si rivolge (bisogna insomma costruire un delicato equilibrio tra il “rapimento” dei destinatari desiderati e il disincentivo verso quei turisti del web che farebbero soltanto sprecare budget…)

 

Un’ultima considerazione è che il modo per forzare l’alternativa fra la compilazione del form e la libera circolazione del contenuto è la tracciabilità pura dell’utente, ottenuta in particolare con il remarketing, del quale oggi si tende a fare uso abbondante. Spesso però anche improprio. Per gli utenti non è affatto una bella sensazione quella di sentirsi spiati dall’azienda che gli sbatte il suo recall su qualsiasi pagina egli apra. E’ una condotta che mette alcune tipologie (non pochissime) di utenti sulla difensiva. Non l’ho ancora contattati e già mi compaiono dovunque, figuriamoci che succede se gli sgancio i miei dati! Il remarketing andrebbe usato con parsimonia, per servizi dei quali l’utente potrebbe avere un bisogno continuativo. Ma questa è un’altra storia, di cui ci occuperemo in un’altra occasione.

 

Anima in Corporation  guida le aziende e gli studi professionali a un impiego razionale ed efficace della campagne AdWords

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